Per risolvere la questione e per meglio apprezzare quest’ultima loro fatica, occorre considerarne la storia, se non dalla precedente esperienza come Uncle Tupelo, almeno dagli ultimi episodi, ovvero da “Summerteeth” in poi: da quel disco, non certo un capolavoro, Jeff Tweedy ha cominciato a sviluppare un approccio spiccatamente moderno. Quella che con “Yankee Foxtrot Hotel” sembrava dover diventare una nuova forma di Americana, sperimentale, contaminata col pop e con l’elettronica, era invece presagio di un ibrido privo della consistenza dei suddetti generi: “A ghost is born”, un fantasma è nato, appunto.
Pur lievitando tra spazi solitamente distanti, l’album è più diretto del precedente. È evidente il lavoro delle chitarre elettriche, alla Crazy Horse, da sempre nel dna dei Wilco, che si amalgamano in maniera sobria col pop: gli Wilco suonano come dei freak del XXI secolo, perfetti nella continuità quanto nella rottura.
In realtà sono dei perfezionisti, che a tratti si compiacciono anche della loro ricerca, dilungandosi in inutili noise o compiacendosi su banali ritmi pop-rock, come succede in “Spiders”, “Handshake drugs” e “Less than you think” e come visto anche nell’unica data italiana del tour di quest’anno. In compenso, a forza di giocare sui sospesi almeno dai tempi di “Being there”, hanno trovato un’alternanza di passaggi sussurrati e rotti riconoscibile come il più evidente dei marchi.
“A ghost is born” suona fragile e chitarroso, etereo e preciso per la maggior parte della sua durata: esempi di delicata essenzialità sono “Company in my back” e “Theologians”, ma ovunque gli Wilco suonano con la semplicità dei grandi, dagli assolo di chitarra distorta alle atmosfere create con le keyboards.
L’approccio di Jeff Tweedy ricorda quello dei REM di parecchi anni fa, seppure in una forma più volubile e privata, per il modo di velarsi e svelarsi attraverso la musica: dove la band di Athens sfruttava i testi e la voce di Stipe, gli Wilco si appoggiano all’apparente incosistenza dei pezzi di Tweedy.
“A ghost is born” non ha la compattezza di un capolavoro, ma il fascino di un disco che non si lascia afferrare. Quindi perché pretendere di catturrare i suoi artefici con il solito retino?