live report
Wilco Milano / Fabrique
Concerto del 12/11/2016
#Wilco#Americana#Rock Jeff Tweedy Nels Cline John Stirratt Pat Sansone Glenn Kotche Matt Jorgensen
Tu che aneli a sfogare rabbie represse e, al contempo, ricerchi oasi di melodiosa armonia, con la cristallina brevità che spezza la tensione e ti concede tregua. Isole di calma nell'Oceano in tempesta.
Un approccio personale che ha miracolosamente trovato il vestito perfetto da indossare, sotto il bosco fatato fatto di alberi e rami intrecciati del palco del Fabrique.
Sembra che i Wilco stasera abbiano captato il mio stato d'animo e vogliano assecondarlo.
Nell'ormai consolidato sestetto non c'è bisogno di parole, si parte per un viaggio che solo dopo due ore conoscerò la sua meta.
Ashes of American Flags, subito un "manifesto", una presa di posizione, un marchio impresso a fuoco del Tweedy-pensiero. E un approccio istantaneo allo stato di grazia di Nels Cline e delle corde da lui suonate per tutto il set.
I Wilco sono politici senza imporre comizi. Hanno appena ricevuto il diploma di Diplomatici della Cultura dal Governo che sentono ancora "OUR", come ben sottolineato da un ciarliero e barbuto Jeff Tweedy. Parole di speranza verso le nuove generazioni che devono fronteggiare un momento difficile, negli States come nel Mondo. Poi è solo musica.
La tripletta di brani da Schmilco ridà una linfa vitale agli stessi che sul loro ultimo album appaiono decisamente meno incisivi. Normal American Kids, If I ever was a child e Cry all day costituiscono piacevoli intermezzi tra i capolavori. Succederà anche per Someone to lose, Locator e We aren't the World (Safety Girl).
I'm trying to break your heart e Art of Almost fanno già intuire che la serata sarà memorabile. Due canzoni che, seppur tra loro eterogenee, sanno costruire un flusso unico di suoni ed emozioni. Il ruolo delle tastiere di Mikael Jørgensen, nel favorire tutto questo, non può essere certo sottovalutato.
Il Fabrique è stipato all'inverosimile. il pubblico segue partecipe, ma, allo stesso tempo, quasi rispettoso delle note e delle parole che arrivano dal palco. Gran bel segnale di amore verso gli Artisti e che costituisce il valore aggiunto della serata.
A livello artistico,le incredibili qualità di Nels Cline e Glenn Kotche colpiscono ancora una volta il bersaglio grosso.
Il primo sembra viva in simbiosi con le sue chitarre, suonandole come se fosse sempre l'ultima volta. Quale migliore esempio dell'assolo torcibudella su Impossible Germany per celebrare degnamente un chitarrista di questo calibro? Il secondo è il Bignami del batterista. Alterna ritmi e stili, accarezzando o pestando duro, bacchette e spazzole sono il prolungamento ideale di cuore e cervello. Quasi trasfigurato nei lineamenti quando in Via Chicago parte per un luogo diverso ma poi trascina la band al ritorno a casa. Monumentale.
Due artisti che hanno il dono di essere al contempo presenti ed "altrove", capaci di cristallizzare le loro straordinarie capacità ma che, invece di specchiarsi in esse, le riportano improvvisamente nella melodia, nell'unicità della canzone suonata.
John Stirratt e Pat Sansone allora sono "solo" di contorno? Quale eresia maggiore potrebbe essere questa? Lo storico bassista è poliedrico tessitore di groove e ritmi nonché esiziale al controcanto e ai cori. E poi piace il suo "linguaggio del corpo", tranquillamente concentrato....Il biondo polistrumentista si districa alle chitarre, alle tastiere, al banjo, allo xilofono. Ormai imprescindibile il suo apporto per far volare alta l'astronave Wilco.
I brani si susseguono, capolavori come Being There e Yankee Hotel Foxtrot vengono, rispettivamente, sfortunatamente accantonati (a parte una vibrante Misunderstood) o giustamente celebrati (I'm trying to break your heart, War on War, Jesus,etc, Heavy metal drummer, I'm the Man who loves you, Reservation). I primi passi e la certificazione dell'allontanamento dal cordone ombelicale alt-country di A.M. (qui citato da un'elettrica rilettura di Box full of letters) per arrivare alla consacrazione di un nuovo (??) modo di fare rock di A ghost is born (Spiders, Hummingbird, The late greats) e Sky, blue sky (la già citata Impossible Germany).
I Wilco, al netto di un'ispirazione che, nelle ultime due opere ha scalato due marce, hanno il dono di rappresentare musicalmente il nuovo millennio. Composito melange, fatto di viaggi interstellari tra i pianeti liberi dell'avanguardia e ritorni morbidi tra le pianure della moderna melodia. Atmosfere oniriche e bruschi risvegli elettrici, caos e ordine, eclettismo e semplicità. Opposti che si attraggono, nessuno slogan ma la realtà sempre ben presente, spesso con lo stridore delle contraddizioni di un'America lontana dai lustrini dello showbiz.
Jeff Tweedy traduce meravigliosamente tutto questo in lamenti, sussurrati o lancinanti. Alcuni suoi testi sono già scritti nella storia di un rock che di classico ha solo alcuni richiami sonori. Ha un aspetto falsamente rassicurante, pacioso investigatore dei suoi abissi interiori. Ora che sembra più sereno riesce a trasmettere all'audience il suo stato d'animo, sovrastato da un palco che amplifica le good vibrations, vissute tra timidi cori, sparuti battimani e una tonnellata di attenzione ed apprezzamento.
Il miglior live set in circolazione, sotto il benevolo sguardo di Woody Guthrie, nascosto tra le stelle della California.
Foto di: Giuseppe Verrini