My name is buddy<small></small>
Americana

Ry Cooder My name is buddy

2007 - Nonesuch

17/04/2007 di Christian Verzeletti

#Ry Cooder#Americana

È ormai prassi che ogni disco di Ry Cooder venga lodato come un lavoro importante, utile a capire realtà storico-musicali andate perdute. Buona parte della stampa si impegna poi a sostenere quanto i suoi album vadano ad approfondire sonorità e tematiche ancora bisognose di essere affrontate. C’è chi poi ogni volta saluta le sue uscite come un personale ritorno ad un modo di suonare che non sentivamo da tempo nella discografia di questo grande musicista.
Tutto (abbastanza) vero, anche perchè Ry Cooder si è meritato tanta stima, ma bisogna dire che i suoi ultimi dischi faticano non poco a farsi riascoltare.
Non si discute il valore dell’artista né lo spessore della sua ricerca. Semplicemente prima “Chavez Ràvine” e ora “My name is buddy” ci sembrano lavori accademici, dotti come i saggi di un emerito professore e specifici come la perizia di un esperto ricercatore.
Ry Cooder suona con competenza rara e forse proprio per questo stenta a dare alle sue interpretazioni una forza capace di andare al di là della bontà dei singoli arrangiamenti. In poche parole da “Mambo sinuendo” in poi manca quello spirito che fuorisciva da (capo)lavori comunque di ricerca come “Talking Timbuctu” e “Buena Vista Social Club”.
“My name is Buddy” è solo sulla carta un album di canzoni, perché la sua organicità è frammentata dall’abbondanza di voci e stili. C’è la fisarmonica di Flaco Jimenez, ma basta a muovere appena qualche pezzo. C’è la partecipazione di Pete Seeger, ma basta a ricordare chi di recente ha recuperato la tradizione con maggior efficacia.
La scaletta si regge su uno sguardo filologicamente corretto e nostalgico di un’epoca dell’american music passata: c’è il folk degli Appalachi, ci sono il blues, il bluegrass, il tex-mex, sfumature celtiche e ispaniche, insomma ci sono tante comparse (la tromba di Jon Hassel, il piano di Jacky Terrasson, il mandolino di Paddy Moloney, la batteria di Jim Keltner insieme a quella di Joachim Cooder, poi Van Dyke Parks, Terry Evans, Bobby King e così via), ma non c’è quell’elemento in grado di rendere un’opera notevole.
Cooder ci mette tutte le sue buone intenzioni, dall’impegno socio-politico che pervade le tracce cantando di un paese in condizioni precarie ai ricordi delle proprie radici, scaturiti da una lettera anonima che gli ha ispirato il tema “rosso” del disco.
È davvero poco però ciò che si può portare a casa: qualche svolazzo ridente, un blues che varrebbe la pena se Tom Waits non l’avesse già fatto mille volte meglio e una “There’s a bright side somewhere” che è un (prevedibile) inchino finale colmo di speranza.
Grazie anche al booklet curato dal pittore Vincent Valdez “My name is Buddy” si merita una valutazione alta come tesi sull’american music. Bassa invece come disco.

Track List

  • Suitcase in my Hand|
  • Cat and Mouse|
  • Strike!|
  • J. Edgar|
  • Footprints in the Snow|
  • Sundown Town|
  • Green Dog|
  • The Dying Truck Driver|
  • Christmas in Southgate|
  • Hank Williams|
  • Red Cat Till I Die|
  • Three Chords and the Truth|
  • My Name is Buddy|
  • One Cat, One Vote, One Beer|
  • Cardboard Avenue|
  • Farm Girl|
  • There´s a Bright Side Somewhere

Articoli Collegati

Ry Cooder

Live Report del 11/10/2018

Recensione di Marcello Matranga

Ry Cooder

The Prodigal Son

Recensione di Marcello Matranga

Ry Cooder

Election Special

Recensione di Andrea Furlan

Ry Cooder

Pull Up Some Dust And Sit Down

Recensione di Gianni Zuretti

Ry Cooder

Paris, texas

Recensione di Christian Verzeletti

Ry Cooder

Chavez ràvine

Recensione di Christian Verzeletti