Ry Cooder My name is buddy
2007 - Nonesuch
Tutto (abbastanza) vero, anche perchè Ry Cooder si è meritato tanta stima, ma bisogna dire che i suoi ultimi dischi faticano non poco a farsi riascoltare.
Non si discute il valore dell’artista né lo spessore della sua ricerca. Semplicemente prima “Chavez Ràvine” e ora “My name is buddy” ci sembrano lavori accademici, dotti come i saggi di un emerito professore e specifici come la perizia di un esperto ricercatore.
Ry Cooder suona con competenza rara e forse proprio per questo stenta a dare alle sue interpretazioni una forza capace di andare al di là della bontà dei singoli arrangiamenti. In poche parole da “Mambo sinuendo” in poi manca quello spirito che fuorisciva da (capo)lavori comunque di ricerca come “Talking Timbuctu” e “Buena Vista Social Club”.
“My name is Buddy” è solo sulla carta un album di canzoni, perché la sua organicità è frammentata dall’abbondanza di voci e stili. C’è la fisarmonica di Flaco Jimenez, ma basta a muovere appena qualche pezzo. C’è la partecipazione di Pete Seeger, ma basta a ricordare chi di recente ha recuperato la tradizione con maggior efficacia.
La scaletta si regge su uno sguardo filologicamente corretto e nostalgico di un’epoca dell’american music passata: c’è il folk degli Appalachi, ci sono il blues, il bluegrass, il tex-mex, sfumature celtiche e ispaniche, insomma ci sono tante comparse (la tromba di Jon Hassel, il piano di Jacky Terrasson, il mandolino di Paddy Moloney, la batteria di Jim Keltner insieme a quella di Joachim Cooder, poi Van Dyke Parks, Terry Evans, Bobby King e così via), ma non c’è quell’elemento in grado di rendere un’opera notevole.
Cooder ci mette tutte le sue buone intenzioni, dall’impegno socio-politico che pervade le tracce cantando di un paese in condizioni precarie ai ricordi delle proprie radici, scaturiti da una lettera anonima che gli ha ispirato il tema “rosso” del disco.
È davvero poco però ciò che si può portare a casa: qualche svolazzo ridente, un blues che varrebbe la pena se Tom Waits non l’avesse già fatto mille volte meglio e una “There’s a bright side somewhere” che è un (prevedibile) inchino finale colmo di speranza.
Grazie anche al booklet curato dal pittore Vincent Valdez “My name is Buddy” si merita una valutazione alta come tesi sull’american music. Bassa invece come disco.