Ry Cooder Chavez ràvine
2005 - Nonesuch Records
Eletto ormai a salvatore di musiche perdute, Cooder non poteva non commuoversi di fronte alla storia di Chavez Ràvine, quartiere appunto di East L.A. popolato un tempo dai cosiddetti Pachucos. Stimolato inizialmente dalle foto di Don Normark, ha richiamato la sua troupe di fedeli musicisti (il figlio Joachim, Jim Keltner, Flaco Jimenez, John Hassell, Chuco Valdes, David Hidalgo) e ha cominciato a lavorare su incisioni dell’epoca e su alcuni pezzi composti per l’occasione, raccontando l’ennesimo sopruso condotto in nome del progresso. La storia è presto detta: Chavez Ràvine versava in condizioni di povertà e avrebbe dovuto essere ricostruito secondo un preciso piano, ma gli interessi legati al nuovo stadio dei Dodgers che doveva sorgere proprio in quella zona ne portarono l’espropriazione e l’annientamento.
L’operazione di Cooder è lodevole: bisogna apprezzarne il lavoro condotto a tavolino come musicologo-filologo e sul campo ad un livello più sociale ed orale.
Coerentemente con le origini e le caratteristiche meticce dei Pachucos, il disco è un melting-pot di suoni riconducibili ad uno stile ispano-americano: questo conferma la profondità della ricerca di Cooder ma si pone anche come limite all’ascolto, perché troppe sono le voci che intervengono rendendo il disco più adatto ad essere pubblicato come colonna sonora di un ipotetico documentario.
Musicalmente gli arrangiamenti sono svolti con la competenza che a Cooder va riconosciuta sin dai tempi di “Paradise and lunch”, ma è proprio al canto dove si constata un’eccessiva alternanza: oltre allo stesso Cooder portano il loro contributo Little Willie G., Lalo Guerrero, Don Tosti, Juliette e Carla Commagere, Ersi e Rossella Arvizu, Bla Pahinui ecc. Ciò dà il senso di una comunità frammentata che meglio sarebbe stata rappresentata in un musical o, come già detto, in un documentario. L’occhio ha comunque la sua parte grazie al booklet ricco di foto e di immagini.
Dal canto suo Cooder procede come un archeologo tra incisioni perdute e sottili incastri: non solo la sua chitarra, da sempre specializzata su toni caldi, ma soprattutto la ritmica, costituita dalla batteria di Jim Keltner e dalle percussioni di Joachim Cooder, stendono un suono su cui i musicisti ricamano r&b, jazz, calypso, mambo, tex-mex e anche una “El U.F.O. Cayó” che suona come un hip-hop ispanico.
Si segnalano “Los Chucos Suaves”, che si riavvicina all’amata Cuba, e “3 Cool Cats”, costruita su un groove latino introdotto da organo e timbali. A rimanere invece nell’incertezza sono soprattutto alcune tracce lunghe e parlate, e “It´s Just Work For Me”, che Cooder canta sfiorando appena il blues.
“Chavez Ràvine” è un bell’oggetto, una bella storia, da conservare a ricordo dei tempi andati e di un’umanità tradita. Speriamo però che la prossima volta Cooder ci delizi con un disco più di canzoni.