Lucinda Williams World without tears
2003 - LOST HIGHWAY
Le sue canzoni, comprese quelle di questo ultimo disco, sono un concentrato di dolore e di amarezza, di delusione e desiderio: trasportano nella musica il lato più debole e nascosto dell’animo umano, quello carico di rancori e di sconfitte di cui tutti ci vergognamo. Ammissioni, che non sono fragili languori fini a se stessi, ma constatazioni di una realtà interiore di cui prendere coscienza, senza alcuna possibilità di redenzione.
Lucinda è unica e credibile, perché si immedesima con la propria arte. Forse la sua vita è realmente composta da ciò che succede nelle sue canzoni: per chi volesse saperne di più rimandiamo al saggio contenuto in “Rock, pop, jazz e altro” di Nick Hornby.
È chiaro che Lucinda è innamorata del blues, è dipendente dal blues. Secondo la tradizioni e i canoni estetici di un genere, che è stile di vita, arriva a fuggire e allo stesso tempo cercare il dolore, a rassegnarsi per illudersi nuovamente. Per reazione e per disperazione, circonda poi se stessa e le sue canzoni di oggetti sacri dal gusto kitsch, come si vede anche dal booklet: è un processo psicologico vitale, dettato dalla sofferenza, che trova nel blues un’espressione adatta.
Una scelta talmente estrema, su cui non è facile costruire una vita e una carriera, soprattutto se si è donna e non si ama essere trattenuta: perciò la sua musica è un concentrato di generi senza esserne mai nemmeno uno. Un po’ come quell’uomo che continua ad inseguire, che arriva a sfiorare, ad abbracciare per un attimo, ma da cui non riesce mai a farsi amare.
Nonostante un approccio più live e più rock di “Essence”, “World without tears” mantiene un carattere lento e sofferto. E sono i pezzi mossi quelli che risentono più dell’esterno: “Righteously” ha un assolo di stampo hendrixiano, “Real Live Bleeding Fingers” sembra una canzone ripudiata dal Neil Young più arruginito o dagli Stones di “Exile on main street”, “Atonement” è un incesto oscuro tra Muddy Waters e Nick Cave, mentre da “Sweet Side” potrebbe scaturire una possibile relazione tra Bob Dylan e Lou Reed. Eppure Lucinda è sempre personale ed inconfondibile: la sua scrittura è una cicatrice che non si rimargina e la sua voce è quella di una donna che ormai ha superato la soglia del pianto.
Prodotto da Mark Howard (Dylan, U2), il disco non ha nulla di lacrimevole: immagini di sangue e vomito contrastano con la purezza ideale della neve e della fede. “People talkin’” soffre di monotonia, ma per il resto gli arrangiamenti, pur partendo da un blues e da un country primitivi, non suonano mai retrò, neanche quando prevale la steel guitar, strumento country e languido per eccellenza.
Non sono tradizionali le ballate più roots, come non è moderna “American dream”, un rap dolente, con wurlitzer e armonica, che guarda con cinismo al sogno americano, tradito e malmenato, proprio come un amore vittima di violenza.
Si sbagliano coloro che pensano che la musica della Williams sia un palliativo incline alla lacrimuccia: queste canzoni non piangono, anche se sotto le dita hanno ferite sanguinanti. C’è da sperare che anche i lettori di Vanity Fair si accorgano di questa forza.