Bruce Cockburn You’veve never seen everything
2003 - COOKING VYNIL
È il caso di Bruce Cockburn, il cui nuovo album non raggiunge i livelli di eccellenza dei precedenti “The charity of the night” e “Breakfast in New Orleans”. In “You’ve never seen everything” le risorse musicali ed umane del canadese trovano nuovo spazio: la sua chitarra e la sua voce sono come sempre un richiamo alla sensibilità umana, aggiornata con un violino e, per la prima volta, con qualche loop. L’album è qualitativamente alto, anche se Cockburn non ha ancora messo tutto a fuoco. Vengono in mente i dischi degli anni ’80, quando suoni e produzioni impedivano all’anima delle canzoni di essere inspirata ed espirata.
La musica di Cockburn ha bisogno di prendere fiato da luoghi ampi e in questo la scelta di riempire il suono, di contorcerlo, non giova: forse questa è la conseguenza della coscienza di una globalità sempre più deprimente, comunque si sente la mancanza di una maggiore essenzialità e di uno strumento come il vibrafono, perfetto nel sottolineare le linee profonde della voce di Cockburn.
Le prime quattro canzoni sono la visione di un uomo preoccupato per il mondo nella sua totalità, dal punto di vista politico a quello ecologico: grandi armonie, stavolta con Sarah Harmer e di Emmylou Harris nella parte dei duetti femminili, e grande perizia strumentale, ma un tiro rock ansioso che penalizza la voce di Cockburn, capace di far vibrare le corde dell’anima soprattutto su toni più pacati. Non a caso il pezzo più riuscito di questi è “All Our Dark Tomorrows” con un parlato che dal fondo dell’umanità scorge un futuro oscuro.
Le ballate invece, anche per via della loro lunghezza, richiedono un ascolto paziente, in attesa di uno sbocco melodico a cui si arriva prendendo coscienza dei limiti, anche storici, del popolo umano. “Wait no more” è un mantra inquieto con voce e dobro che recitano un blues dall’Africa e poi riecheggiano qualche vaga salmodia orientale. “Celestial Horses” sembra scritta e suonata di notte, in un canyon, con la voce di Jackson Browne: dal vivo andrà sicuramente ad affiancare i pezzi più poetici dell’autore. Il brano è esemplare della scrittura di Cockburn, un’esperienza mistica che induce alla meditazione, anche se il violino offfre un’intepretazione troppo perfetta, che ha dello stucchevole. Meglio invece quando questo rimane sul fondo dei brani, come nei nove minuti conclusivi di “Messenger wind”: tra fischi, echi e rintocchi, Cockburn canta un mondo in rovina dalla finestra della sua camera, come se fosse un novello Kurtz dal cuore di tenebra della sua giungla personale.
“You’ve never seen everything” è un disco che pulsa dei viaggi del suo autore (“Postcards From Cambodia”), senza mai cedere alla tentazione della world music, che sarebbe per Cockburn troppo facile. Anche se questo comporta ogni volta un viaggio interiore che rimette in discussione le caratteristiche del suo essere musicista.