Roberto Vecchioni L`infinito
2018 - DME
Altra cosa: in fatto di traslitterazione del mito, Roberto Vecchioni non lo batte nessuno. Forse soltanto Guccini, finchè gli è andata di scrivere canzoni, ha saputo tenergli testa, batterlo quasi mai. Non mi impelago in confronti, e se tiro in ballo Guccini non è per caso. Francesco Guccini è l’ideale doppio antitetico (se mi si passa l’ossimoro) del prof. Roberto Vecchioni. Lo è per ridondanze libresche, per frastagliature ontologiche, per assonanze elettive della parola scritta e cantata. L’ex sodale di notti insonni e canzoni di notte (ma metteteci anche sbronze, saggezza, romanzi, scazzi, politica, pura vita) si inmcrocia alla traccia n.3 di questo disco. Per l’antico compagno (d'arme e d'avventure) rompe il silenzio e torna a farsi Maestrone: Ti insegnerò a volare consta di due voci. La prima è di Vecchioni, la seconda la sua. E quando canta "Qui si tratta di vivere, non di arrivare primo/ e al diavolo il destino" sai che finirai per mandarlo a memoria, perchè con la scusa di Alex Zanardi, il brano riferisce a chiunque abbia ancora orecchie buone per intendere.
L'infinito è un album impeccabile, e clamorosamente classico. Nel senso quindi di vecchioniano sino al midollo: il Vecchioni di Io non appartengo più alza di una spanna ulteriore l’asticella dei pensieri speculativi (in Com’è lunga la notte, per esempio. Con un Morgan promosso sul campo alter ego vocale del prof.). Universalizza come al solito il discorso. Lo ammanta di luce nova (più solare, più speranzosa), attraversando traiettorie andata/ritorno di storie-sogni-anti-eoi-cieli-donne-geografie, in maniera inesausta. Coraggiosa. Del coraggio indefesso del combattente greco. Il combattente che non si arrende al cielo. Sapendo che la lotta per la lotta è l'unico espediente da opporre a un destino di gran lunga più forte (Vai, ragazzo). Eroico è (difatti) il Vecchioni che in Una notte un viaggiatore schiaccia l’occhio a Calvino e ritorna alle sue caligini. Al grado zero di una nuova, ipotetica, surreale stazione-scenario di bilanci. I suoi fantasmi da presso e una valigia piena di risposte in fin dei conti inaccessibili: in quanto il senso della vita sta forse nel reiterato domandarsi e (ri)domandare.
L’infinito è un disco esemplare, dal quale si irradiano storie esemplari. Paradigmi di naviganti infiniti, di giganti ontologici. Uomini e donne adesi alla vita (appunto), declinati nel modo meta-significante con cui Vecchioni riesce a declinare eroi ed eroi qualsiasi presenti e passati. C’è Giulio Reggeni (Giulio) inquadrato dal focus sentimentale della madre (ricordate il Guevara di Celia de la Serna?) che continua a immaginarlo dormire nella stanza di casa. C’è la curda Ayse che in Cappuccio rosso immola alla causa anti-Isis la sua vita. Sottotraccia a La canzone del perdono c’è persino Francesco (il papa, stavolta) che detta lo spunto a questa “nota a piè di pagina della mia vecchia stazione di Zima”, per dirla con le parole di Vecchioni stesso. Trattandosi di parole e musica tutte sue, niente di didascalico e tutto e niente di epico. Tenuto conto che l’epos vecchioniano risiede ab origine nell’ossimoro dei piccoli/grandi gesti quotidiani. Sta, cioè, nelle rotte controvento. Sta nello slancio collettivo (Formidabili quegli anni, ma senza abusata nostalgia). Sta nella vita qualunque di un qualunque giorno vissuto con pienezza di intenti. Sta soprattutto nell’amore (Ogni canzone d’’amore, Ma tu). Sta persino nell’amore per la lingua scritta e parlata (Parole). Nella parola che in principio era Verbo e che oggi chissà. Tradita, smarrita, svilita di senso, piegata com'è a ontologie di superficie. Un apologo paradigmatico a cui il professore affida non a caso e senza saccenza la chiusura ideale del suo nuovo romanzo suonato e cantato. Un disco-concept orbitante attorno la vita che si ama (per parafrasarlo nel titolo del suo ultimo libro) e le parole che occorrono per raccontarla.
L’infinito come disco privato e paradigmatico, dunque. Dodici canzoni quasi fossero “momenti di una stessa canzone”, e il corollario (con)seguente di infiniti eco musicali. Chissà se perché infiniti sono gli eco della nostro stare al mondo (rifrangenza biunivoca di sirtaki, madrigali, Puccini, frottole rinascimentali, valzerini, canzone popolare siciliana, ballate irlandesi). Se non altro in coda all'articolo, corre davvero l'obbligo di nominare i musicisti che hanno concorso alla stra-ordinaria coloritura melodica del cd. In ordine sparso e a prescindere dall’eclettismo musicale di ciascuno: Lucio Fabbri (pianoforte, piano elettrico, organo Hammond, violino, viola, fisarmonica, basso elettrico e chitarra elettrica), Massimo Germini (chitarra classica e acustica, chitarra 12 corde, mandolino, bouzouki, ukulele, liuto cantabile), Roberto Gualdi (batteria e percussioni). E Marco Mangelli (basso fretless) lontano dagli occhi ma prossimo al cuore affollatissimo del prof, e - c'è da giurarci - del suo team. Per chiudere: sapete quei dischi che si facevano una volta? L’infinito è così: un disco dall'allure anni Settanta. Ispirato-pensato-scritto secondo i dettami della necessità creativa, e suonato-cantato per rimanere nel tempo. Un disco a cui l’aggettivo inappuntabile calza a pennello.