Queens Of The Stone Age Songs for the deaf
2002 - INTERSCOPE RECORDS
Detta così, sembra la storia di una boyband o dell’ennesimo gruppo di rock sfigato, tanto siamo abituati a vedere la buona musica allontanata da questo tipo di celebrazione. Invece, le Regine dell’Età della Pietra sono uno dei migliori e più veri gruppi rock in circolazione, capaci di andare continuamente oltre il proprio suono (stoner?) e di sfornare un album come da anni non si sentiva nel campo di un certo rock duro.
Per chi ancora non lo sapesse la band è l’ultimo frutto proveniente dalla terra apparentemente arida di Palm Desert, California: lì, nel Rancho de la Luna si svolgono le proverbiali Desert Sessions, attorno a cui sono nate e gravitano bands come Kyuss, Fu Manchu, Masters of Reality, Dwarves e chissà quante altre. In poche parole una famiglia, se non una vera e propria scena, che ha ispirato ai singoli anche la fondazione di alcune etichette e che è diventata da anni elemento di continuità con il grunge di Seattle, o con i suoi resti.
Non è un caso che su “Songs for the deaf”, oltre ai membri fondatori Josh Homme e Nick Oliveri (ex Kyuss), suonino Dave Grohl (ex Nirvana) e Mark Lanegan (ex Screaming Trees), che per ora chiudono il cerchio di questi corsi e ricorsi storici.
Ripetiamolo allora: i Queens of the Stone Age non c’entrano nulla con MTV, se non per il fatto che meritano tutto il successo possibile. “Songs for the deaf” è un disco che ha la veemenza dei primi Soundgarden, i toni cupi degli Screaming Trees, la forza diretta dei Nirvana e le abrasioni dei Kyuss.
Rispetto ai precedenti, segna un ulteriore passo avanti verso un rock viscerale, che non arretra di nulla nemmeno quando si fa accessibile: arrangiamenti scarni, tirati al massimo senza debordare, e una forza primordiale, questa è la formula.
Non c’è una caduta di tono dalla botta tribale di “You think I ain’t worth a dollar, but I feel like a millionaire” ai toni epici ed acustici di “Mosquito song” che non invidiano nulla ai Love e ai Led Zeppelin: i cambi di registro portati dai fiati e dagli archi in quest’ultima canzone, come i diversi livelli di chitarrismo presenti in tutto il disco, non scalfiscono la compattezza dell’album, anzi ne alzano continuamente il tiro, fregandosene di tutto, per cui ci stanno anche il garage di “Another love song” e il pop lisergico di “Everybody’s gonna be happy”.
La coerenza sonora è garantita da un’aggressività cosciente, che non perde mai di vista la canzone, nemmeno quando raggiunge toni da far impallidire qualunque band di gothic rock o di brutal (“Six shooter’”, “A song for the dead”). Il rock dei Queens of the Stone Age suona tanto infiammabile quanto interiore, grazie a fior di canzoni, come la tumultuosa “Hangin’ tree”, cantata da Mark Lanegan (eh, sì, quanto lo rivorremmo in pianta stabile anche in una rock band!).
Sarà anche casuale opportunismo, ma neanche MTV è rimasta sorda a questo disco.