Queens Of The Stone Age Lullabyes to paralize
2005 - INTERSCOPE RECORDS
Certo non si può ridurre a questo il nuovo lavoro dei Queens of the Stone Age, anche perché Lanegan è presente solo in alcuni pezzi del disco, ma dietro al gioco delle partenze e degli arrivi si possono scorgere alcune delle caratteristiche principali di “Lullabyes to paralize”.
Innazitutto ci sono una maggior compattezza e oscurità (di cui, stando al gioco, potrebbe essere simbolo Mark Lanegan). E manca la fantasia e la schizofrenia che c’era invece in “Songs for the deaf” (queste attribuili ad Olivieri).
“Lullabyes to paralize” è disco più ossessivo e mono-tono del precedente e anche la presenza di Billy Gibbons (ZZ Top) sembra voler confermare un tentativo di rincarare la dose di anni ’70: i QOTSA si sono sempre nutriti di mistero e di perversione, ma qua, proprio come in molto hard-rock stile Seventies, si fanno attrarrare in modo ancora maggiore da un immaginario sanguinolento, tra lupi, boschi e lunghi coltelli.
Certo è che Josh Homme e compagni hanno fatto di tutto per dare al disco immagini e significati in grado di comunicare paura: dal video all’intervista inclusi nel dvd allegato al disco, dall’artwork ai testi, tutto va a comporre uno scenario in cui i nostri recitano la parte dei mostri cattivi.
In realtà dietro a questa ambientazione piuttosto pacchiana si nasconde una ricerca nel lato oscuro dell’uomo che non è così banale: “You wanna know just how long you can hide from what you are”. Proprio questa capacità di scavare nella parte più tenebrosa dell’animo emerge dall’iniziale “This lullaby”, una ninnananna cantata da Lanegan, che poi risulterà essere il pezzo più profondo del disco.
Questa introduzione e la presenza di Lanegan in maniera più stabile, dopo alcune comparse e Desert Sessions, fanno pensare ad un album in cui incubi e spettri vengono sviscerati in modo più autorale, invece presto i QOTSA cominciano a tritare tutto con un rock compattato, più hard che stoner, mai così vicino appunto agli anni Settanta.
La prima parte del disco è una botta allo stomaco, furiosa e quadrata: anche una ballata come “Everybody Knows That You Are Insane” si muove senza scampo sugli echi della steel guitar. La voce di Josh Homme si propone come al solito staccata dagli strumenti, alienata, e tutto va in tensione anche negli episodi più diretti come il r&r di “In My Head” e il singolo “Little sister” che sembra fatto apposta per pogare.
Poi , quando ci sarebbe bisogno di nuovo di un pezzo profondo, il disco cambia marcia e va a cercare delle improbabili variazioni rendendo il tutto ancora più ossessivo: i toni si appesantiscono ulteriormente, i pezzi si fanno più lunghi e gli ospiti (Chris Goss, Shirley Manson, Dave Catching) servono solo a rendere ancora più allucinato e maniacale l’insieme. Il risultato è impressionante, ma solo in “Someone´s in the Wolf” produce delle parti rilevanti di rock.
Verso il finale torna qualche umore autorale, quando “Long slow goodbye” si attorciglia attorno ad un mezzo blues. Rimane l’amarezza per un disco che avrebbe potuto essere molto più omogeneo. E far paura davvero.