Nick Cave & The Bad Seeds Wild God
2024 - PIAS
Quando a Luigi Tenco chiedevano: “Perché scrivi sempre canzoni tristi?” pare che rispondesse: “Perché quando sono felice, esco.” In verità la battuta è attribuita anche a Bruno Lauzi e la reale paternità resterà forse sempre un mistero. Ecco, probabilmente Nick Cave dovrebbe uscire più spesso, magari senza portarsi dietro una troupe che lo immortala nelle passeggiate solitarie attorno al Pier di Brighton, come è già avvenuto in ben due documentari sulla sua vita quotidiana, uno dei quali addirittura prodotto a ridosso della morte del figlio Arthur.
Una tragedia simile, purtroppo reiterata con la morte di un altro figlio, Jethro, non può che cambiare un uomo e un artista, così il nuovo Nick Cave, con ciò che resta dei suoi Bad Seeds dopo le defezioni dell’arrangiatore e polistrumentista Mick Harvey e del minimalista creatore di suoni abrasivi e cori sepolcrali Blixa Bargeld – oltre alla scomparsa del fido Conway Savage al piano – porta l’Autore australiano a prendere le distanze dal vecchio sé, ovvero l’artista tenebroso, tormentato, eccessivo, stonato ma carico di pathos, che prima in un post-punk fragoroso e dissonante, poi con ballate oscure e non di rado sulfuree e morbose, aveva esplorato le radici di Country e del Blues nei loro aspetti più drammatici, prima di assestarsi su una canzone d’autore di classe e quasi diaristica (di notevole pregio letterario, ma filosoficamente e immaginificamente inferiore ai suoi idoli Cohen e Dylan, capaci di esprimere in un paio di versi ciò che Cave esplora in interi dischi).
Nel frattempo, con la collaborazione sempre più stretta con Warren Ellis, violinista dei Dirty Tree, dalla tecnica non adamantina ma dallo stile sicuro, le canzoni hanno preso prima un’atmosfera ambient e riflessiva, ora un suono glorioso, gospel, in grado di esplorare – paradossalmente – la gioia. Non manca la maturazione della voce, che da baritono ostentato e magniloquente, porta ora nuovi colori, senza dimenticare il tono predicatorio che è ormai un marchio di fabbrica. Nel frattempo, il Cave appartato e terrore degli intervistatori è diventato ecumenico, tanto da tenere un sito di dialogo continuo con i fan (in cui spesso, nonostante la nota ironia e l’innegabile cultura, si lascia andare a un certo rassicurante buonismo da rotocalco). Non manca la conversione, spesso ultimo approdo della disperazione.
Ed ecco, dunque Wild God: un album percorso da un certo manierismo, aperto agli accordi maggiori e ai cori enfatici, che farà storcere il naso ai nostalgici (o agli esigenti) e varrà inevitabilmente lodato dai sostenitori più recenti. Purtroppo, sia detto come provocazione, a volte ci si troverà più dalle parti dei pomposi sensazionalismi dei Coldplay che non nel gospel sofferto di un Johnny Cash.
La traccia iniziale, Song of the Lake, ricorda un ibrido tra le composizioni di Push The Sky Away (2013) e la pienezza di Abattoir Blues / The Lyre of Orpheus (2004). Il “nevermind” ripetuto pare ripetuto più a se stesso che a noi. Il dio selvaggio della title track fa quello che può, in un mondo in cui il libero arbitrio ha mostrato il proprio lato problematico; l’umanità goffa e confusa procede in guisa di rana alla ricerca dell’acqua in Frogs. La Long Dark Night (dello spirito) riporta alla ballata pensosa guidata dal consueto vocione, rischiarato da cori rassicuranti (si torna un poco a No More Shall We Part, 2001). La più mesta, a dispetto del titolo, Joy, indulge in arrangiamenti favolistici e all’inizio ricalca il tipico incipit blues. Cave lotta con i fatti che non può cambiare. I fantasmi ci sono, ma non fanno paura: il coro angelico solleva e quasi commuove. Qualcosa di Ghosteen (2019) aleggia nella richiesta: “have mercy on me please”, che non è più quella dei tempi di Tender Prey (1988). L’elettronica quasi straniante di Final Rescue Attempt cede a un piano consueto. Cave pare sincero. Quali sono gli dèi che non salvano, o almeno non nel modo in cui vorremmo? L’ancora più confessionale Conversion, cantata con le lacrime in gola, può convincere anche i detrattori, non fosse per i falsetti di Ellis. Poi il brano si apre in modo ecclesiastico e no, non siamo dalle parti di Slow Train Coming (1979) di Dylan.
Non ha senso chiedere ad un artista di non cambiare stile o di attestarsi su ripetizioni dei capolavori passati, visto che questi restano e la ricerca è anche garanzia di vitalità e sincerità. Ma, a parte il mito che ammanta l’aedo australiano, quanti potrebbero parlare davvero di un album riuscito, nella sua stucchevolezza diffusa? Nessun limite alla diaristica, persino quando compare la voce della scomparsa Anita Lane, tratta da una telefonata, in O Wow O Wow. Il Cave che ha sempre ostentato una lotta anche stereotipata con i demoni dell’animo umano si mostra nudo, ma non privo dell’ormai nota parrucca. Che stia ripercorrendo la propria vita o sia definitivamente vittima del suo nuovo mito, forse è presto per dirlo. Di certo, ad alcuni animi tormentati mancherà la sua antica irrequietezza, stereotipata o meno che fosse.