Nick Cave & The Bad Seeds Live from KCRW
2013 - Bad Seeds ltd
Gli album dal vivo sono sempre celebrazioni, ma anche, per certi versi, delle prove. E se Live Seeds (1993) riassumeva e testimoniava il peso sonoro della band e il repertorio che spaziava dal primo blues goticheggiante alle morbide ballate venate di country del predicatore-crooner-urlatore australiano, questo Live from KCRW (2013) fotografa il periodo più controverso da No More Shall We Part (2001) al recente Push the Sky Away (2013).
Nel periodo tra i due album, Nick Cave ha avuto una vera e propria consacrazione come autore colto che non ha giovato alla sua scrittura, già di per sé barocca, ha cambiato modo di cantare, abbandonando anche il celebre vocione per una modulazione più melodica, per poi tornare alle ruvidezze degli esordi e spostarsi ancora oltre con il progetto parallelo Grinderman, che lo vede anche chitarrista elettrico attratto da insospettabili umori garage.
Anche i Bad Seeds sono cambiati, guadagnando un sempre più influente Warren Ellis al violino e perdendo la chitarra rumorista di Blixa Bargeld prima, l’apporto eclettico di Mick Harvey più recentemente.
La band si presenta ora ridotta all’osso, sospesa tra morbide ballate e digressioni furiose, con Cave stesso al piano e un ritrovato Barry Adamson all’organo, Jim Sclavunos alla batteria, il fido Martyn P. Casey al basso, l’ormai debordante Ellis al violino, chitarra, loops e piano.
L’iniziale Higgs Boson Blues mostra il nuovo Cave alle prese con la sua vocalità più bluesy, ma il brano è lungo e come privo di tensione. Far from Me non ha più la delicatezza raffinata di un tempo e il testo stesso sembra più lamentoso che realmente poetico, quasi a ricordare che in fondo il buon Cave non è mai stato un Cohen. Il nuovo arrangiamento di Stranger than Kindness fa rimpiangere la chitarra di Bargeld. Incisiva e bellissima è, invece, la versione pianistica di The Mercy Seat, come la mesta e insieme epica Mermaids, che conferma le doti affabulatorie del cantautore e la personalità di una band che resta riconoscibile anche nel suo essere mutata al punto di permettersi un assolo di chitarra impensabile in altri tempi. Purtroppo in Jack the Ripper, la furia passata diventa solo una sorta di sguaiatezza, e mancano più che mai i cori spettrali che controbilanciavano il cantato ebbro del vecchio Nick.
Un album di luci e ombre, in sostanza, che testimonia vitalità e mestiere in parti uguali, ma che non sfugge all’ombra della nostalgia.