Nick Cave & The Bad Seeds Abattoir blues/the lyre of orpheus
2004 - Mute
Si tratta di due ottimi dischi, forse non indimenticabili, in cui le anime del genio australiano convivono separate, ma non più così distanti. Quello che l’incerto “Nocturama” aveva lasciato intravedere, è compiuto in quest’opera, ne è il naturale proseguimento.
“Abbatoir Blues”, il disco rosa, respira ancora il rock ossessivo di Cave: liberato però dai fantasmi di un passato schizofrenico, il suono si fa più omogeneo, smussato da una maturità non solo artistica anche se le chitarre si fanno sentire, la batteria di Jim Svavunos picchia duro e i giri di basso si sprecano. Ma non mancano, anche in questa parte più dura, le melodie tipiche del Cave più recente: non tanto nel singolo “Nature Boy”, quanto nella più incisiva “Canninbal’s Hymn”.
Vive invece di ariose ballate pianistiche “The Lyre of Orpheus”, nel quale prende il sopravvento la batteria spazzolata da Thomas Wydler. L’atmosfera si fa più quieta, l’intensità delle liriche è ancora altissima , ma rispetto al passato più recente le canzoni sono meno cupe, e trovano spazio anche le spruzzate folk di “Breathless”.
Registrato in Inghilterra, nella quieta Brighton, e sopravvissuto alla fuga di un pezzo importante dei Bad Seeds, quel Blixa Bargeld, anima a sei corde della band ed amico fraterno di Cave, questo doppio album senza contenere brani memorabili, una “Mercy Seat” da una parte o una “Into My Arms” dall’altra, riesce di nuovo a dimostrare la grandezza dell’artista, ancora capace di scrivere testi di grandissimo spessore e di accompagnarli, come sempre, colla sua inconfondibile musica.
Che poi, almeno per il sottoscritto, sia preferibile e più credibile il Cave che si piega sul piano per incantarci con le note di “Easy Money”, e quindi il dischetto verde che contiene “The Lyre Of Orpheus”, è solo un dettaglio.
I difetti, già in parte accennati, non mancano: l’utilizzo frequente dei cori, il violino di Ellis messo un po’ in disparte, qualche brano che si dilunga troppo (senza arrivare agli eccessi di “Babe I’m On Fire”), e se vogliamo anche qualche ripetizione.
Alla fine, però, sono convinto che questo lavoro rimarrà un episodio di primo piano nella discografia di Nick Cave che riesce a plasmare come pochissimi altri, rock, blues, gospel e quant’altro vogliate mettere nella sua magica scatola musicale.
Insomma, il nostro incanta ancora, questo è certo, e nessuno gli chiederà di smettere di suonare il suo strumento. Nessuno si travestirà da Euridice che nel testo della seconda title-track minaccia il disperato Orfeo di far fare una brutta fine alla sua lira. Cave non è più adolescente, certo non è bellissimo, e sicuramente non è figlio del re della Tracia o di Apollo: però, quanto canta un brano come “O Children”, immaginare qualche belva (uomini di cui il mondo non ci ha mai risparmiato) ammansita dalle note del suo piano non sarebbe male. E se non sarà Seneca a narrare le doti di questo moderno cantore, accontentavi di un misero recensore. Merita una citazione anche la confezione. Un lussuoso cofanetto con due dischi (al prezzo di uno) e libretto con tutti i testi fa proprio venire voglia di avere l’originale. Brava Mute.