live report
Nick Cave & The Bad Seeds Milano / Mediolanum Forum Assago
Concerto del 06/11/2017
L'uragano che si abbatté su Tupelo, il 5 aprile 1936, fu di tale intensità che gli abitanti erano soliti raccontare gli eventi con la dicitura B.T. e A.T., ossia, prima e dopo Tupelo.
Potremmo usare la stessa prassi per raccontare un concerto: B.C. e A.C., ossia, prima e dopo Nick Cave. Perché l'australiano viene davvero dal mondo sottosopra, e così concepisce una sua performance: sconvolgendo piani, aspettative, prospettive del proprio pubblico, coinvolgendolo fino ad un'insostenibile tensione, magnetizzando quanto tocca, re Mida del feeling, guida di una setta multiforme e trasversale, Caronte fra un regno e un altro. E noi, spettatori del rito, a metà fra l'apollineo e il dionisiaco, fra cielo e viscere della terra, per oltre due ore siamo cercati, toccati, sospinti, chiamati, e poi ricacciati indietro, da chi tiene stretto in pugno lo scettro del potere, illudendoci di essere parte del rito, nel momento esatto in cui il suo mistero si rivela a noi inconoscibile. Inutile credere di avere fotografato l'anima di Cave con uno smartphone ("So, you're gonna put this into your fucking Instagram page...", sibila caustico a un fan che lo riprende...); inutile vantarsi per avere scambiato un calzino con lui (proposta di Cave a un fan che gli urlava da tempo "Nice socks!", subito accolta e realizzata); inutile anche pensare di averlo abbracciato; in realtà, è sempre lui ad aver deciso di concedersi.
Il vero spettacolo, invece, sta nella splendida alchimia fra Cave e la sua band.
Nick Cave È i Bad Seeds; un corpo solo, composto di suoni e gesti, di strumenti di legno, elettricità e di mani che li suonano, di movimenti e salti, ruvide carezze e bruschi cambi di tonalità; che indaga da decenni il segreto della vita e della morte, che da quest'ultima si è lasciato penetrare fino al midollo, e che l'ha risputata indietro, spingendo lontano la tentazione di finire.
I Bad Seeds SONO Nick Cave; Warren Ellis su tutti, demone munito dello strumento diabolico per eccellenza, che usa il violino come bacchetta da rabdomante, come piccone, come antenna parabolica puntata verso il cielo, come indice teso a cogliere i battiti della terra; sono uomini in gessato nero e sguardo spiritato, che seguono le scosse telluriche della guida, a volte precedendolo ( come nell'impossibile, estenuante, Jubilee Street), altre volte assecondandolo (come nel primo bis The Weeping Song, in cui Cave è un novello Mosè, che divide le acque del pubblico, passandovi letteralmente in mezzo, raggiungendo una pedana laterale e guidandolo, in un battito di mani collettivo e liberatorio).
E il vissuto dell'uomo Cave diviene inscindibile dalla performance dell'artista; mentre sullo schermo scorrono le immagini di esili palme sconquassate dall'uragano, o di una figura umana (un ragazzo? Arthur, il figlio morto tragicamente?), che lentamente cammina sulla spiaggia di Brighton, l'occhio di chi guarda diviene lo sguardo di chi canta, uno sguardo infantile, disarmato, stupefatto dalla violenza del dolore, ma anche dalla potenza della propria resistenza ad esso.
E la voce dell'artista Cave non si incrina mai; dà spazio e fiato all'uomo, diventando, volta per volta, urlo rabbioso, preghiera sommessa, confessione sincera, lamento dolente, inno alla vita. Come la sua musica, così poliedrica da costituire un genere a sé stante, la voce segue agile le curve del percorso, passando da momenti intimisti (la magnifica Into my arms, col coro di un pubblico altrimenti ammutolito) ad altri decisi e violenti, in una setlist simile alle montagne russe, e conducendo l'ascoltatore in una dimensione di totale sottomissione rispetto alle variazioni di tono, umore e ritmo imposte dall'artista.
Per questo, la conclusione del concerto, con decine di persone del pubblico letteralmente issate sul palco, mentre Cave le guarda e le dirige, dalla passerella su cui ha speso la quasi totalità del tempo, assume un significato ambiguo: perché il rito catartico officiato da Cave non annulla, ma enfatizza la distanza fra lui e il pubblico, che può intuire la profondità del suo messaggio, risultarne toccato, coinvolto, fors'anche salvato, ma non potrà mai coglierlo totalmente, né replicarlo nella propria vita.
Abbracciato a un fan scarmigliato e seminudo, esaltato per la prossimità col suo mito, Cave sistema le distanze, abbassandogli il braccio, che il giovane ignaro aveva alzato a sua imitazione, come a dire "ecco, ti ho scelto per arrivare fino a me, ma tu non sarai mai me"; aggiungendo però: "And some people say it's just rock and roll...oh but it gets you right down to your soul!"; come a dire: " Io suono, tu puoi solo accogliere il messaggio e farlo tuo".Con questa benedizione laica, e un po' sciamanica, si conclude il concerto. E, sì, ci sarà un prima e un dopo Cave. In tutti i sensi.
Fotografie di: Gianni Gaudenzio
SETLIST
Anthrocene
Jesus Alone
Magneto
Higgs' Boson Blues
From Her to Eternity
Tupelo
Jubilee Street
The Ship Song
Into My Arms
Girl in Amber
I Need You
Red Right Hand
The Mercy Seat
Distant Sky
Skeleton Tree
BIS
The Weeping Song
Stagger Lee
Push the Sky Away
Potremmo usare la stessa prassi per raccontare un concerto: B.C. e A.C., ossia, prima e dopo Nick Cave. Perché l'australiano viene davvero dal mondo sottosopra, e così concepisce una sua performance: sconvolgendo piani, aspettative, prospettive del proprio pubblico, coinvolgendolo fino ad un'insostenibile tensione, magnetizzando quanto tocca, re Mida del feeling, guida di una setta multiforme e trasversale, Caronte fra un regno e un altro. E noi, spettatori del rito, a metà fra l'apollineo e il dionisiaco, fra cielo e viscere della terra, per oltre due ore siamo cercati, toccati, sospinti, chiamati, e poi ricacciati indietro, da chi tiene stretto in pugno lo scettro del potere, illudendoci di essere parte del rito, nel momento esatto in cui il suo mistero si rivela a noi inconoscibile. Inutile credere di avere fotografato l'anima di Cave con uno smartphone ("So, you're gonna put this into your fucking Instagram page...", sibila caustico a un fan che lo riprende...); inutile vantarsi per avere scambiato un calzino con lui (proposta di Cave a un fan che gli urlava da tempo "Nice socks!", subito accolta e realizzata); inutile anche pensare di averlo abbracciato; in realtà, è sempre lui ad aver deciso di concedersi.
Il vero spettacolo, invece, sta nella splendida alchimia fra Cave e la sua band.
Nick Cave È i Bad Seeds; un corpo solo, composto di suoni e gesti, di strumenti di legno, elettricità e di mani che li suonano, di movimenti e salti, ruvide carezze e bruschi cambi di tonalità; che indaga da decenni il segreto della vita e della morte, che da quest'ultima si è lasciato penetrare fino al midollo, e che l'ha risputata indietro, spingendo lontano la tentazione di finire.
I Bad Seeds SONO Nick Cave; Warren Ellis su tutti, demone munito dello strumento diabolico per eccellenza, che usa il violino come bacchetta da rabdomante, come piccone, come antenna parabolica puntata verso il cielo, come indice teso a cogliere i battiti della terra; sono uomini in gessato nero e sguardo spiritato, che seguono le scosse telluriche della guida, a volte precedendolo ( come nell'impossibile, estenuante, Jubilee Street), altre volte assecondandolo (come nel primo bis The Weeping Song, in cui Cave è un novello Mosè, che divide le acque del pubblico, passandovi letteralmente in mezzo, raggiungendo una pedana laterale e guidandolo, in un battito di mani collettivo e liberatorio).
E il vissuto dell'uomo Cave diviene inscindibile dalla performance dell'artista; mentre sullo schermo scorrono le immagini di esili palme sconquassate dall'uragano, o di una figura umana (un ragazzo? Arthur, il figlio morto tragicamente?), che lentamente cammina sulla spiaggia di Brighton, l'occhio di chi guarda diviene lo sguardo di chi canta, uno sguardo infantile, disarmato, stupefatto dalla violenza del dolore, ma anche dalla potenza della propria resistenza ad esso.
E la voce dell'artista Cave non si incrina mai; dà spazio e fiato all'uomo, diventando, volta per volta, urlo rabbioso, preghiera sommessa, confessione sincera, lamento dolente, inno alla vita. Come la sua musica, così poliedrica da costituire un genere a sé stante, la voce segue agile le curve del percorso, passando da momenti intimisti (la magnifica Into my arms, col coro di un pubblico altrimenti ammutolito) ad altri decisi e violenti, in una setlist simile alle montagne russe, e conducendo l'ascoltatore in una dimensione di totale sottomissione rispetto alle variazioni di tono, umore e ritmo imposte dall'artista.
Per questo, la conclusione del concerto, con decine di persone del pubblico letteralmente issate sul palco, mentre Cave le guarda e le dirige, dalla passerella su cui ha speso la quasi totalità del tempo, assume un significato ambiguo: perché il rito catartico officiato da Cave non annulla, ma enfatizza la distanza fra lui e il pubblico, che può intuire la profondità del suo messaggio, risultarne toccato, coinvolto, fors'anche salvato, ma non potrà mai coglierlo totalmente, né replicarlo nella propria vita.
Abbracciato a un fan scarmigliato e seminudo, esaltato per la prossimità col suo mito, Cave sistema le distanze, abbassandogli il braccio, che il giovane ignaro aveva alzato a sua imitazione, come a dire "ecco, ti ho scelto per arrivare fino a me, ma tu non sarai mai me"; aggiungendo però: "And some people say it's just rock and roll...oh but it gets you right down to your soul!"; come a dire: " Io suono, tu puoi solo accogliere il messaggio e farlo tuo".Con questa benedizione laica, e un po' sciamanica, si conclude il concerto. E, sì, ci sarà un prima e un dopo Cave. In tutti i sensi.
Fotografie di: Gianni Gaudenzio
SETLIST
Anthrocene
Jesus Alone
Magneto
Higgs' Boson Blues
From Her to Eternity
Tupelo
Jubilee Street
The Ship Song
Into My Arms
Girl in Amber
I Need You
Red Right Hand
The Mercy Seat
Distant Sky
Skeleton Tree
BIS
The Weeping Song
Stagger Lee
Push the Sky Away