Le Luci Della Centrale Elettrica Canzoni da spiaggia deturpata
2008 - La tempesta
Questi brani ringhiano risentiti dal cuore delle macerie dei sogni in frantumi, costruendo nelle trame malinconiche di chitarre acustiche e nel noise delle chitarre elettriche di Giorgio Canali, il diario di un’adolescenza e di una giovinezza lisergica, costretta a volare basso tra il crollo degli ideali e gli spazi angusti di una vita spoglia trascinata a stento per le vie di metropoli asfissianti. Lo sfondo di esistenze alienate è infatti il panorama squallido e mesto delle periferie più grigie e dell’archeologia industriale di ciminiere e centrali elettriche: è su questo scenario che si proiettano le ombre magre di una generazione che ha perso i suoi punti di riferimento tra gli anni di piombo, la lotta armata, i retaggi della corruzione della prima repubblica e le ultime crociate dei migliori fornitori di mine.
Queste canzoni sono monologhi interiori senza un alito di speranza o un filo di ironia, che toccano le corde dell’inquietudine per farsi cantilena ossessiva tra dissonanze lancinanti. Non c’è spazio per melodie rassicuranti: la voce si contrae in urlo rabbioso fino a strozzarsi in gola in un gorgo di lacrime trattenute in brani spesso brevi e brucianti. Musicalmente i risultati migliori si possono riscontrare nei fulminanti cambi di ritmo di “Fare i camerieri”, nei crescendo emozionali e nelle incursioni nella storia e nella “fauna umana” milanese di “Nei garage a Milano Nord”, nel suo finale che declina in chiave cupa e disperata alcuni versi di “Ma il cielo è sempre più blu” del compianto, quasi suo maestro Rino Gaetano, nelle inattese percussioni sinfoniche caposseliane di “Sere feriali”, che pure vira come la maggior parte dei brani verso l’energia nera e corrosiva del grunge; non sembra tuttavia particolarmente opportuno isolare episodi di un disco così compatto, che si è appena aggiudicato la Targa per la migliore opera prima al Premio Tenco 2008 con netto distacco dagli altri artisti della cinquina finale. L’uniformità di atmosfere e sonorità suscita anzi il dubbio che la cifra visionaria, eppure realistica di questo progetto cantautorale sia effetto dell’accurata costruzione di un’immagine e di un personaggio, più che essere una modalità espressiva naturale e istintiva. Ma vale la pena di malignare? Tutto ciò che porta la firma di Brondi, dai post del suo blog alle interviste, ha quello stesso stile da flusso di coscienza, aspro e spigoloso, aperto ad accogliere improvvisi bagliori di poesia. Resta inoltre fermo un dato di fatto: questo album non lascia indifferenti. Travolge. Si ama. Oppure si odia.