Joe Ely Streets of sin
2003 - ROUNDER RECORDS
Prima che dagli arrangiamenti, questo suono è già contenuto nelle canzoni di Joe Ely e di Butch Hancock, alla cui penna ormai il texano fa affidamento da anni come ad un fido destriero. Dischi come “Lord of the highway”, “Love and danger” e soprattutto “Letter to Laredo”, prendevano vita proprio da questo soffio vitale, che sferzava dai deserti dell’Ovest e dalla terra arida del Messico. Pur senza mai arrivare a scorgere la land of plenty californiana, Joe Ely ha sempre viaggiato con questo vento dritto in faccia, lo si vede dallo sguardo dei suoi occhi bruciati. È un vento che attraversa anche i romanzi di Cormac McCarthy o le canzoni di James McMurtry.
Ultimamente, invece, Joe Ely sembra far volentieri tappa per soffermarsi su paesaggi crepuscolari e per scrollarsi di dosso la polvere del viaggio. Già se ne aveva avuto sentore con il precedente “Twistin’ in the wind”, dove lo sguardo indulgeva volentieri in un’aria da siesta messicana.
Ora con questo atteso “Streets of sin”, che doveva segnare il cosidetto ritorno al rock di Joe Ely, le canzoni rimangono imbrigliate in un suono troppo pulito, che è di gran classe, ma che non riesce a scalpitare. Anzi, istintivamente non si fa che guardare indietro, e questo è un segnale di stanchezza per chiunque, ma soprattutto per uno come Joe ely, abituato a dirigere i suoi passi sempre verso il confine.
I compagni di viaggio sono quelli giusti, alla chitarra non ci sono più Teje e Jesse Taylor, ma c’è David Grissom, e soprattutto c’è una buona scorta di canzoni come unico bagaglio. Quello che manca sono quelle smorfie, quelle frasi biascicate, quegli scatti negli arrangiamenti provocati dalle cicatrici dell’anima e da un ambiente arduo. Forse, oggi Joe Ely si muove su sentieri che conosce troppo bene. O forse siamo noi che crediamo di conoscere ormai troppo quei sentieri.
Fatto sta che pezzi come “Flood in our hands” suonano prevedibili, di maniera, se non addirittura addolciti come “All that you need”. Sarebbe bastato un piglio più aggressivo, perché la struttura della canzone e la scrittura sembrano aver mantenuto intatta la loro aspra fierezza. Ne sono purtroppo conferma “Run little pony” e “95 South”, pezzi normali che Joe Ely avrebbe potuto interpretare in modo meno ripetitvo.
“Streets of sin” è un buon disco, ma non riesce a fare a meno di certi passaggi risaputi o di suoni che non vogliono graffiare. Troppi i rimpianti e troppo poche le variazioni, anche quando la fisarmonica va a far coppia con la voce di Joe Ely.
Appare significativo che uno dei pezzi migliori del disco sia l’ammissione finale di “I got to find ol’ Joe”: “devo ritrovare il vecchio Joe / prima che si smarrisca del tutto”.