Joe Ely Silver city
2007 - Rack ´Em Records
Per ora l’unica cosa certa è che il risultato di questa raccolta è nettamente superiore alla media su cui Joe Ely si era assestato negli ultimi tempi: se già “Twistin’ in the wind” e “Streets of sin” avevano lasciato più di un dubbio, il recente “Happy songs from the rattlesnake gulch” era stato la prova definitiva di un calo di forma preoccupante, quasi che nemmeno la scelta di percorrere una strada indipendente avesse giovato al cammino del nostro.
I dieci pezzi qua presentati non offrono nulla di nuovo, anzi i fans più accaniti non stenteranno a riconoscervi tracce di canzoni poi pubblicate in forma più completa di questa per sola voce e chitarra, con al massimo qualche intervento di fisarmonica. Eppure “Silver city” conserva intatta quell’epica da border tipica della musica di Joe Ely, proprio quella che era andato scemando negli ultimi dischi tra lande desolatamente prevedibili.
Già la title-track con la voce e l’armonica torna ad aprirci davanti un paesaggio ideale da ultima frontiera che il songwriting di Ely ha sempre stagliato in modo vivido nei suoi brani migliori. Si prosegue nella stessa direzione con “Santa Rosa / St. Augustine” che avanza sulla mappa puntando verso il Messico, ma il meglio arriva con i tre pezzi centrali: in “Wounded knee” sembra di sentire l’orgoglio di un songwriter di fronte alla sua terra e alla sua storia ferite, mentre “Cloister Mountain” e “Time For Travelin” tornano ad alzare lo sguardo verso una natura che sfida l’uomo con la sua essenza primordiale.
In più di un’occasione la fisarmonica di Joel Guzman basta a fare da eco o a carezzare le canzoni come una brezza calda e asciutta. Ma a rallegrarci è soprattutto la voce di Joe Ely, tornata aspra e epica come la vorremmo sempre, incapace di rassegnarsi come succede in “I know will never be mine” e eroicamente solitaria come in “Billy Boy”.
C’è qualche riempitivo, tra cui una “Windy Windy Windy” che si muove gigiona come un pezzo da balera, ma sono particolari che fanno parte dello scenario borderline.
“Silver city” non è un disco necessario. È quanto basta però a riaccendere qualche fuoco di speranza là all’orizzonte, dove c’è il confine tra Texas e Messico.