Nick Cave Idiot Prayer: Nick Cave Alone At Alexandra Palace
2020 - Bad Seeds Ltd
L’iniziale Spinning Song crea un ponte con l’album precedente, Ghosteen (2019), incentrato sul lutto e sull’elaborazione della perdita del figlio.
“This prayer is for you my love / sent on the wings of a dove” ci dice Cave (mutuando parole dalla canzone successiva) sul finire del brano, recitato su un inserto orchestrale. Si rivolge direttamente al pubblico, che non è presente fisicamente, poi accarezza i tasti e intona la title track (l’unico brano fuori dal concept autobiografico di The Boatman’s Call, 1997). La successiva Brompton Oratory conferma lo stile esecutivo: accompagnamento minimale, qualche sbavatura non ritoccata, enfasi e approccio melodico. La parola è al centro di tutto, come per un riscatto o una riconferma. Così Palaces of Montezuma, dal repertorio del side-project Grinderman, ispirato alle asperità post punk e garage degli esordi, in chiave pianistica diventa quasi pop. Però, purtroppo, Cave non è John Cale e qualcuno dovrà dirlo, nel coro degli entusiasmi che ormai accompagna ogni sua uscita. Molto più riuscita la seguente Girl In Amber: un brano mesto, insinuante, oscuro, ipnotico. Riusciremo mai a giudicare questa produzione senza pensare alla tragedia che l’ha accompagnata? In fondo, Ghosteen è stato un tentativo sincero, coraggioso, vitale di esorcizzare il lutto pubblicamente. “Don’t touch me” canta Cave.E non si può che credergli e sentirlo vicino, proprio in un momento storico in cui la vita sociale è difficile e in cui l’artista deve esibirsi nella cornice straniante di un auditorium deserto.
Nobody’s Baby Now, già basata principalmente sul piano anche nella versione full band in Let Love In (1994), cambia di poco, ma è impossibile non notare quanto sia maturata la voce in misura ed intonazione, anche se il persuasivo baritono di un tempo si affaccia raramente: il crooner quasi parodistico ha lasciato il campo a un consumato entarteiner che canta con la consueta magniloquenza, però declinata in un vibrato che sa, talvolta, di mestiere. Nella generosa (o prolissa?) scaletta, si alternano brani di varia provenienza. I brani da Ghosteen guadagnano in concisione e per certi versi rivelano maggiormente la melodia vocale, senza la cornice ambient: Waiting For You si conferma una canzone di grande impatto. Il registro alto è inaspettatamente pulito, a testimonianza di una costante maturazione – anche stilistica – che ha portato Cave a volte a qualche azzardo, ma che garantisce la sua onestà verso la propria musa e il proprio pubblico. The Mercy Seat diventa ancora più blues, ma meno disperata, molto simile alla versione pianistica dei tempi di un bootleg imprescindibile come Duende (1999) legato alle letture universatarie sulla canzone d’amore tenute dal cantautore australiano nel suo momento di passaggio da personaggio di culto underground ad intellettuale riconosciuto. La soppressione di “my head is” rende più concitata l’interpretazione.
L’inedita Euthanasia, proveniente dal periodo di Skeleton Tree (2016), è una piacevole sorpresa. Il Cave del presente non indulge nell’oscurità a tutti i costi, anzi, cerca disperatamente la luce attraverso tenebre che paiono troppo fitte e insondabili. Jubilee Street riporta alla teatralità consueta; Sad Waters, spoglia e con pianismo più complesso, rimane morbida e morbosa. Stranger Than Kindness e soprattutto Papa Won’t Leave You, Henry, invece, restano un poco irrisolte e, senza il pathos oscuro che le caratterizzava, suonano povere e non del tutto convincenti. La conclusiva Galleon Ship è insieme accorata e rasserenante. La preghiera profana giunge al termine. L’inno alla bellezza e alla fragilità è stato ancora compiuto.