Idiot Prayer: Nick Cave Alone At Alexandra Palace<small></small>
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Nick Cave Idiot Prayer: Nick Cave Alone At Alexandra Palace

2020 - Bad Seeds Ltd

02/12/2020 di Luca Andriolo

#Nick Cave#Rock Internazionale#Rock

Nello spazio vasto e deserto dell’Alexandra Palace, a Londra, nel pieno della pandemia che tanto ha cambiato la vita di tutti in quest’ultimo anno, Nick Cave procede da solo verso il pianoforte. In realtà non è solo, anche se il sottotitolo dell’album specifica proprio “alone”, perché ci sono gli operatori che riprenderanno lo show, inteso come seguito intimista del più ecumenico Distant Sky (2018), ma il senso dell’operazione pare evidente. Non è forse neanche il Nick Cave che ci si aspetta, ma a pensarci bene è passato molto tempo dagli esordi gridati del punk dissonante e cabarettistico dei Birthday Party, così come dal blues elettrico e melodrammatico dei Bad Seeds della formazione orginale. Questo Nick Cave non è nemmeno quello delle ballate oscure e maledette che gli hanno fatto guadagnare il ruolo di artista di culto, casomai è il performer da grandi palchi, amato da nuove generazioni, che non lesina mai una risposta ai fan sul suo sito e si concede a bagni di folla e dichiarazioni ben lontane dal nichilismo sarcastico di altri anni. Non un uomo che si adagi sugli allori passati, visti i cambi di rotta sonora dei dischi più recenti, quanto un artista in vena di riappropriarsi di uno status che ha più lambito che posseduto, con una coraggiosa esibizione in solitaria. 

L’iniziale Spinning Song crea un ponte con l’album precedente, Ghosteen (2019), incentrato sul lutto e sull’elaborazione della perdita del figlio.

This prayer is for you my love / sent on the wings of a dove” ci dice Cave (mutuando parole dalla canzone successiva) sul finire del brano, recitato su un inserto orchestrale. Si rivolge direttamente al pubblico, che non è presente fisicamente, poi accarezza i tasti e intona la title track (l’unico brano fuori dal concept autobiografico di The Boatman’s Call, 1997). La successiva Brompton Oratory conferma lo stile esecutivo: accompagnamento minimale, qualche sbavatura non ritoccata, enfasi e approccio melodico. La parola è al centro di tutto, come per un riscatto o una riconferma. Così Palaces of Montezuma, dal repertorio del side-project Grinderman, ispirato alle asperità post punk e garage degli esordi, in chiave pianistica diventa quasi pop. Però, purtroppo, Cave non è John Cale e qualcuno dovrà dirlo, nel coro degli entusiasmi che ormai accompagna ogni sua uscita. Molto più riuscita la seguente Girl In Amber: un brano mesto, insinuante, oscuro, ipnotico. Riusciremo mai a giudicare questa produzione senza pensare alla tragedia che l’ha accompagnata? In fondo, Ghosteen è stato un tentativo sincero, coraggioso, vitale di esorcizzare il lutto pubblicamente. “Don’t touch me” canta Cave.E non si può che credergli e sentirlo vicino, proprio in un momento storico in cui la vita sociale è difficile e in cui l’artista deve esibirsi nella cornice straniante di un auditorium deserto.

Nobody’s Baby Now, già basata principalmente sul piano anche nella versione full band in Let Love In (1994), cambia di poco, ma è impossibile non notare quanto sia maturata la voce in misura ed intonazione, anche se il persuasivo baritono di un tempo si affaccia raramente: il crooner quasi parodistico ha lasciato il campo a un consumato entarteiner che canta con la consueta magniloquenza, però declinata in un vibrato che sa, talvolta, di mestiere. Nella generosa (o prolissa?) scaletta, si alternano brani di varia provenienza. I brani da Ghosteen guadagnano in concisione e per certi versi rivelano maggiormente la melodia vocale, senza la cornice ambient: Waiting For You si conferma una canzone di grande impatto. Il registro alto è inaspettatamente pulito, a testimonianza di una costante maturazione – anche stilistica – che ha portato Cave a volte a qualche azzardo, ma che garantisce la sua onestà verso la propria musa e il proprio pubblico. The Mercy Seat diventa ancora più blues, ma meno disperata, molto simile alla versione pianistica dei tempi di un bootleg imprescindibile come Duende (1999) legato alle letture universatarie sulla canzone d’amore tenute dal cantautore australiano nel suo momento di passaggio da personaggio di culto underground ad intellettuale riconosciuto. La soppressione di “my head is” rende più concitata l’interpretazione.

L’inedita Euthanasia, proveniente dal periodo di Skeleton Tree (2016), è una piacevole sorpresa. Il Cave del presente non indulge nell’oscurità a tutti i costi, anzi, cerca disperatamente la luce attraverso tenebre che paiono troppo fitte e insondabili. Jubilee Street riporta alla teatralità consueta; Sad Waters, spoglia e con pianismo più complesso, rimane morbida e morbosa. Stranger Than Kindness e soprattutto Papa Won’t Leave You, Henry, invece, restano un poco irrisolte e, senza il pathos oscuro che le caratterizzava, suonano povere e non del tutto convincenti. La conclusiva Galleon Ship è insieme accorata e rasserenante. La preghiera profana giunge al termine. L’inno alla bellezza e alla fragilità è stato ancora compiuto.

Track List

  • Spinning Song
  • Idiot Prayer
  • Sad Waters
  • Brompton Oratory
  • Palaces of Montezuma
  • Girl in Amber
  • Man in the Moon
  • Nobody`s Baby Now
  • (Are You) The One That I`ve Been Waiting For
  • Waiting for You
  • The Mercy Seat
  • Euthanasia
  • Jubilee Street
  • Far from Me
  • He Wants You
  • Higgs Boson Blues
  • Stranger Than Kindness
  • Into My Arms
  • The Ship Song
  • Papa Won`t Leave You, Henry
  • Black Hair
  • Galleon Ship

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