Nick Cave

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Nick Cave Skeleton Tree

12/09/2016 di Luca Andriolo

#Nick Cave#Rock Internazionale#Alternative

A volte un disco, quando è tanto atteso, anche per ragioni extramusicali, merita qualche riga in più e anche del tempo in più, invece di essere precipitosamente recensito sull’onda dell’entusiasmo collettivo. Questo Skeleton Tree, ultima fatica di Nick Cave & the Bad Seeds, al quale si affianca il film diretto da Andrew Dominik One More Time with Feeling, proiettato a Venezia nei giorni scorsi, è uno di quei capitoli nella storia musicale e personale dell’autore destinato a sorprendere e magari anche a deludere alcuni fan di vecchia data per l’approccio rivoluzionario, ma rischia anche un po’ di essere assolto a priori per ogni difetto a causa dell’affetto per il personaggio e l’attenzione alle sue traversie. Più che mai il confine tra singolo disco e sguardo sulla carriera, arte e vita, biografia e cronaca, critica e gossip è sottile ed evanescente.
Nick Cave si è sempre posto come un cantore del lato oscuro dell’esistenza, pessimista ma con ironia, disperato ma in modo spettacolarizzato: negli anni, dagli esordi punk e nichilisti alle varie vite che lo hanno portato ad attraversare una rilettura tormentata e spesso lancinante del blues, una visione magniloquente e melodrammatica del country, percorsa da un piglio avanguardistico e abrasivo grazie a compagni di viaggio come Blixa Bargeld o Barry Adamson, un rock maudit che prima di diventare di maniera ha ceduto il passo a un cantautorato maturo e pensoso, sempre a tinte fosche. Tematicamente, quasi tutto Cave si colloca sull’alternanza di perdizione ed espiazione, vizi mondani e nostalgia per la trascendenza, un po’ come un Leonard Cohen meno affilato e meno metaforicamente sontuoso, aggiungendo un tocco di violenza e dedizione rubato all’immaginario di Johnny Cash, spesso più incline al grand guignol che alla riflessione sul male, pur con le dovute eccezioni. I tentativi di reinventarsi come cantautore maturo e pacificato, profondo e intellettualmente compiaciuto, hanno dato frutti alterni: dopo Nocturama (2003), i dischi non hanno fatto che perdere smalto e diventare sempre più pretestuosi, dalla parantesi liberatoria e garage del side-project Grinderman, fino alla rinascita di Push the Sky Away (2013), in cui il sound appare rinnovato anche grazie all’apporto di un prima invadente e ormai irrinunciabile Warren Ellis, non più solo violinista ma coraggioso arrangiatore e onnipresente alter ego di Cave stesso. Ed Ellis la fa da padrone anche in questo disco, prodotto da lui e lo stesso Cave, in cui di fatto i Bad Seeds, o quel che ne resta, non aggiungono che qualche suono sparuto.

Il primo ascolto dei 40 minuti scarsi di Skeleton Tree, prima ancora di emozionare, conferma all’ascoltatore l’impressione che si tratti del disco più radicale del periodo post Mick Harvey, che ha lasciato la band nel 2009, definitivamente lontano dall’approccio corale, dalle orchestrazioni ariose, dal cantato baritonale e impostato sostenuto da cori quasi western, ma anche dalle cavalcate post punk e dalle ballate soffuse e pianistiche. Pare la radicalizzazione del precedente, la prosecuzione di una ricerca che porta a un ulteriore cambiamento, conducendo la forma delle canzoni in territori sempre più prossimi al monologo poetico, recitato su trame sonore di droni e piccole concessioni d’archi. Uno stile definito e definitivo, nel bene e nel male, in cui per la prima volta si affaccia l’uso del sintetizzatore (unica eccezione prima d’ora Brompton Oratory, su The Boatman’s Call e per l’appunto la title track del predecessore).

Tra l’ultimo disco e questo, però, c’è stata la tragedia. La morte del figlio Arthur, caduto da una scogliera di Brighton nel 2015, sotto effetto di droghe, a metà delle registrazioni, iniziate nel 2014 e completate nel 2016. Questo ha portato tutti a credere che si sarebbe trattato di un requiem e forse l’idea stessa di girare un altro documentario dopo 20000 Days on Earth (2014), il docu-fiction di Iain Forsyth e Jane Pollard, in cui il cantautore monologa e dialoga sulla condizione d’artista posando a pensatore e rimanendo piuttosto fermo alla cartolina autoincensante, getta il sospetto di una crescente autoreferenzialità un po’ narcisistica sulla multiforme produzione artistica del caro King Ink. Oppure questa testimonianze si è resa necessaria data l’importanza del disco, artisticamente e biograficamente? È coraggio o un appello ai fan nel momento più buio? Esibizionismo o generosità? In attesa di vedere sul grande schermo la pellicola, il disco è la risposta: la copertina è nera con una scritta verde che rimanda ai vecchi computer. Notte ed elettronica. Ed essenzialità.

L’iniziale Jesus Alone presenta subito un tappeto di stridori in loop e una lirica che si rifà per certi versi al Dylan più prossimo ai Beat: Gesù “è caduto dal cielo vicino al fiume Adur”, ed è identificato con un tossicodipendente sdraiato a Tijuana, un dottore africano che fa raccolto di dotti lacrimali (sic!), un vecchio seduto davanti al fuoco. Forse più velleitario che poetico, il testo trova senso con la musica e l’interpretazione vocale, molto attenta ma quasi monocorde, tranne che nel ritornello. “With my voice I’m calling you”, canta Cave, accorato ma netto, come sempre biblico. Non è mai stato tanto vocalmente agile. Rischia di passare inosservato il lamento in falsetto finale, forse la cosa più bluesy che Cave abbia mai intonato.



Rings of Saturn purtroppo si presenta dal primo ritornello guastata da alcuni coretti non solo inutili ma anche fastidiosi. Il parlato è scandito ai limiti di un lento rap. “This is what she does and this is hat she is”: siamo nel Cave più classico, a livello testuale. Un’altra figura femminile è descritta nella successiva Girl in Amber, sospesa in una situazione probabilmente luttuosa, senz’altro dolorosa, mentre gli altri si muovono, mentre il telefono squilla e squilla e poi non squilla più. Il tappeto sonoro corteggia la musica ambient. “I used to think that when you died you kind of wandered the world/ in a slumber til your crumbled were absorbed into the earth / well, I don't think that any more the phone it rings no more / the song, the song it spins now since nineteen eighty-four.” La soluzione non può essere che lasciarsi andare: “And if you want to bleed, just bleed / and if you want to bleed, just bleed / and if you want to bleed, don't breathe a word / just step away and let the world spin”.

Quando la poesia immaginifica lascia spazio alla narrazione, arrivano picchi inaspettati. Magneto (sì, proprio l nome del villain dei fumetti Marvel) pare un ritorno alle tematiche consuete con introspezione psicologica in meno poche parole: “Oh, the urge to kill somebody was basically overwhelming / I had such hard blues down there in the supermarket queues / and I had a sudden urge to become someone, someone like you / who started out with less than anyone I ever knew / (…) and in the bathroom mirror I see me vomit in the sink”.

Tutti i nostri sforzi fin dall’Antropocene sono volti a trovare l’amore, e tutto ciò che amiamo va perduto: questo il sunto di Anthrocene. La voce sovrasta cori distanti, colpi di batteria quasi jazz che spingono avanti, da lontano, una struttura rarefatta in cui si distinguono accordi di piano.

Anche I need you è, come quasi tutte le altre del disco, abitata da un fantasma. Inizia con note di Korg su una scala minore: potrebbe essere un brano degli Swans, ma il cantato è dolcissimo, inaspettatamente melodico, carico di fragilità e una tristezza non più stilizzata. “Nothing really matters anymore, not even today, no matters how I hard I try”, singhiozza con una voce sottile e il pianto non sembra simulato. La canzone, con la figura intravista al supermarket che poi svanisce tra le auto scure, potrebbe essere una canzone d’amore. Di quelle a cui tanto l’autobiografia caveiana che la fedeltà ai topoi country e blues (ma si canta poi di altro?) ci hanno abituati. Il coraggio di mettere alla prova la voce in una linea melodica così aperta e insieme ritmicamente serrata paga nelle imperfezioni: un vero crooner, senza incertezze, la renderebbe forse stucchevole, mentre un Cave orfano del proprio baritono la rende fragile. Forse una delle sue canzoni più belle da anni.




Distant Sky è quasi liturgica. Cave che sussurra e il soprano Else Torp si insuinua su una melodia forse pretenziosa, conferendo un sospetto di stucchevolezza New Age che rende il brano non del tutto a fuoco. Il testo, di contro, è tra le cose migliori dell’album: “They told us our gods would outlive us / They told us our dreams would outlive us / They told us our gods would outlive us /But they lied.” Sconforto e dolcezza, necessità di resistere insieme ai colpi inferti da un cielo distante e indifferente, o semplicemente dal caso: tutto l’album ruota attorno a questo e in questa semplice strofa sembra trovare la sintesi più chiara. Gli archi finali arricchiscono il brano con raffinatezza.

Skeleton Tree ricorda i Bad Seeds dei b-sides di No More Shall We Part (2001): pianoforte, spazzole sulla batteria, voce sofferta e misurata. La chitarra acustica appena accennata è una delle cose più meste che si siano mai ascoltate su disco. L’albero scheletrico contro il cielo, la domenica mattina, un richiamo senza risposta. “Nothing is for free”, sussurra dolente, ma conclude: “It’s alright now”. Come già New Morning su Tender Prey (1988), o Push The Sky Away sull’album omonimo, il commiato aperto alla speranza rende il tutto ancora più incredibilmente malinconico.

Nonostante ciò, in fin dei conti, Skeleton Tree non è il disco più greve di Cave. È un disco strumentalmente quasi trattenuto, questo sì, opportunamente scheletrico, sperimentale nel rapporto con la narrazione e la forma-canzone. Laddove Scott Walker accoglie derive dodecafoniche, Cave sceglie droni contrappuntati di suoni acustici, piccole frasi, come onde, quasi come un David Tibet senza misticismo, e ci invita a seguirlo lungo un cammino solitario alla ricerca di un senso che non può essere trovato, di un dio che non può esistere nell’immanenza, di un’arte salvifica che deve salvare se stessa dai tumulti del reale e del quotidiano. È un album sospeso, casomai, aperto al mistero, alla parola, un’opera che si interroga sul dolore senza le maschere del passato: se le pene d’amore ci hanno dato un Let Love In (1994) fragoroso e un The Boatman’s Call (1997) melodico e soffuso, l’ultimo capitolo della discografia di questa band eterogenea e cangiante, capitanata dall’oscuro cantautore dal passato turbolento, è un disco in bilico tra il bisogno del requiem e la durezza senza appello della realtà. E questa è solo una suggestione, legittima ma limitata: i temi non sono diversi da quelli del Cave più introverso e di fatto la preghiera e il compianto sono sempre stati elementi del suo songwriting. Forse ricordare evocare Arthur Cave è più un bisogno dei fan per fare luce attraverso questo album denso e insieme evanescente, che l’obiettivo dell’autore, benché assieme a “to call”, il verbo più frequente sia proprio “to fall”.

Come giudicare Skeleton Tree, allora? Come un album coraggioso, a volte irrisolto, urgente ma ponderato, diverso da tutto quello che lo ha preceduto. Forse il film sui giorni della registrazione aiuterà la comprensione. Di certo, il disco è più che in grado di stare in piedi da solo e probabilmente, nel tempo, troverà anche il suo posto esatto in una discografia che rimane tra le più stimolanti di quante siano fiorite dai semi (malvagi?) della musica degli anni Ottanta.

Nick Cave & The Bad Seeds – Skeleton Tree (Bad Seed Ltd, 2016)

Jesus Alone
Rings of Saturn
Girl in Amber
Magneto
Anthrocene
I Need You

Distant Sky

Skeleton Tree