live report
Nick Cave Modena + Napoli
Concerto del 07-08/07/2005
7 luglio 2005, MU.VI (MODENA)
8 luglio 2005, Neapolis Festival (Napoli) MU.VI (MODENA)
Quando l'artista che più ami al mondo deve venire nella tua città, hai la tentazione di caricare l'evento di significati che lo travalicano. Di illuderti che quel giorno non potrà essere altro che un insieme di momenti perfetti, coordinati, illuminati da luci scintillanti. E ,soprattutto, protetti da ogni genere di inciampo.
Invece il 7 luglio è stata una giornata difficile. Offuscata, fin dalla mattinata, dalle immagini di un nuovo orrore sanguinario che ti si scaraventavano addosso dalla televisione. Dai frastuoni laceranti del dolore, delle rovine che ti assordavano le orecchie. E infine anche dal timore che forse il concerto che attendevi con trepidazione da mesi alla fine sarebbe saltato. Per scelta o per necessità. E lui, Nick Cave, nella tua città non avrebbe nemmeno messo piede.
Più che altro, invece, quel giorno c'era bisogno di qualcosa che possedesse in sé la forza, l'accensione, lo slancio sufficiente a ribadire, nonostante tutto ,una possibilità di ricomposizione ,di bellezza e poesia. E per fortuna alla fine Nick Cave è venuto.
E il concerto ha avuto luogo nel piccolo Villaggio bianco della Musica, oasi minima ma protetta, per una sera, dal frastuono caotico del mondo. E come ogni volta, appena lui è entrato in scena, appena si è seduto al piano e ha cominciato a percuoterlo, a penetrarlo con la sua voce profonda, il mondo ha cambiato colore, spessore e dimensione. E per due ore e mezzo non c'è stato niente altro che la sua musica con tutte le sue vibrazioni insolite, gli incroci sorprendenti, la fiammeggiante rivisitazione di brani vecchi e nuovi. E la magia unica e inconfondibile della sua violenta e aspra dolcezza.
La versione infuocata di “West Country Girl” ha aperto il concerto, subito seguita da “Abattoir Blues”, potente e ritmata anche senza Bad Seeds al completo. Poi è venuta “The Ship Song” che invece risente, già da un po', dell'usura delle troppe esecuzioni e perde, nell'intonazione acuta della voce e nel ritmo più uniforme, parte della sua epicità e bellezza.
Belle e coinvolgenti erano invece “Babe, You Turn Me On”, “Messiah Ward”, ”Hiding All Away”, “Wonderful Life”, “Callibals' Hymn” e una “Rock of Gibraltar” che Nick è venuto a cantare in ginocchio proprio davanti a noi. Stupenda, come già a Lubiana, la versione di “The Mercy Seat”, dall'attacco insospettabile e dallo svolgimento essenzialmente ritmico, a metà strada fra la versione acustica e quella furiosa e trascinante. E la riproposta di “Henry Lee”, ormai familiare nel suo stravolgimento "cacofonico". Nick Cave era di ottimo umore, rideva e scherzava e, appena la musica lo consentiva, lasciava il piano per muoversi da elegante e dinoccolato incantatore lungo il palco.
Certo, la tendenza accentuata verso l'accelerazione e il ritmo anche nei brani più morbidi, ha reso questo concerto più vicino a quello dell'Alcatraz coi Bad Seeds al completo, che alla solo-performance dell'Auditorium di Milano dello scorso febbraio: ma qui forse con una carica più intensa di inventiva, di geniale improvvisazione. Anche se il mix in alcuni brani come “Tupelo” o “Jack the Ripper” ha privilegiato un po' troppo l'effetto "rumoristico" della band, col violino di Ellis, la batteria di Sclavunos, il basso di Casey che rischiavano di soffocare la voce e il piano di Cave, a scapito di quell'amalgama più equilibrato e spesso perfetto che ha comunque caratterizzato la maggior parte dei brani. Significative le riproposte di “People Ain't No Good”, “Lucy” e “Nobody's Baby Now”, e in questo senso sarebbe, credo, auspicabile riportare alla luce ,e magari rivisitare, altri brani "dimenticati", avendo la rara possibilità di poter spaziare in un repertorio che è sicuramente fra i più ricchi e più alti mai conosciuti.
In questa direzione è andato, fortunatamente, l'ultimo regalo di Nick Cave prima di andarsene: “The Loom of the Land”, bellissima e struggente ballata di “Henry's Dream”. Ed è stata davvero l'ultima emozione, l'ultima traccia di armonia. Poi, irrimediabilmente, si sono accese le luci. Ma per noi, in realtà, è stato come se, con la musica, si spegnessero definitivamente.
E non ci è restato che uscire fuori, nel silenzio forse subdolo della notte. Però con la certezza che la bellezza del concerto di Nick Cave avrebbe sicuramente ritardato il riemergere dello "sconcerto" doloroso e incontrollabile delle dissonanze del mondo. Neapolis Festival (Napoli)
Bella la cornice verde e spaziosa che circonda l'Arena Flegrea. Coi prati disseminati di pini marittimi e di palchi per la musica. Lì si consuma la nostra attesa prima che le porte si aprano e possiamo correre a prendere i posti tra le prime file. C'è una sorpresa, però: una buca d'orchestra profonda più di due metri e lunga almeno cinque che ci separa dal palco. E se durante le esibizioni di Tom Mc Rae e Tori Amos la cosa non arreca alcun disagio, quando arriva lui, Nick Cave, coi suoi gesti da incitatore, con la sua voglia di averci tutti a contatto di mani e di braccia, allora la situazione rischia di finire fuori controllo. Lui parte subito alla grande, come a Modena e a Lubiana, con la versione dura di “West Country Girl”, rilettura estrema tirata su un violento martellare al piano, sullo stesso impeto seguono “Abattoir Blues” e l’onnipresente “Red Right Hand”.
Subito una vivida onda di energia ci sommerge e subito anche inizia una lotta fra gli ardimentosi spettatori che scavalcano le inferriate e si buttano giù, per farsi sotto il palco, e gli uomini della Security che li rispediscono indietro con modi un po' brutali. Nick, naturalmente, sta al gioco, incita gli uomini a lasciar fare “take it easy, brothers”, si mette a sedere con le sue lunghe gambe che penzolano nel vuoto e accetta volentieri l'abbraccio di una ragazza che corre a stringergliele. E quando qualcuno riesce, a dispetto dell'altezza, ad arrampicarsi fino a lui, lo bacia a ricompensa dell'audacia. Questi inseguimenti e fughe creano un colorito scompiglio ma arrecano anche, in varie fasi del concerto, parecchia distrazione da quella che ne è invece la materia portante: la musica.
Parlare di solo- performance, in questo caso, è del tutto fuori luogo. Si potrebbe forse più propriamente dire che Nick Cave si è inventato una sorta di terza via: una band a quattro dalle potenzialità davvero superlative e capace di un sound tutto suo (situazione lanciata ad Ancona tre anni fa durante la rassegna voluta ed organizzata da Battiato “Il violino e la selce”, era il 14 luglio 2002). L'unico limite, se di limite si può parlare, è che Nick è quasi sempre costretto al piano perché ovviamente sono pochi quei brani come “Rock Of Gibraltar” che possono accontentarsi del violino di Ellis, del basso di Martyn P. Casey e della batteria di Jim Sclavunus a fare da conduzione sonora completa e ben compatta, anche la sezione ritmica risulta indovinata per queste versioni prepotenti e arrabbiate del repertorio di Cave, canzoni mai scontate nella loro rivisitazione dal vivo.
Da un po' di tempo sembra che fra Nick e il pianoforte a coda sia nato un nuovo feeling: un feeling battagliero, naturalmente, con strapazzamenti e furiose tempeste di dita che percuotono accordi e disaccordi, pur senza pretendere, per questo, di farsi il perno focale dell'esecuzione. Un trascinante tormentone di note violentate in fulminea intesa con l’ispirato violino di Warren Hellis, che ritrova il miglior vigore proprio quando suona alla corte di Re Inkiostro, espellendo dal suo piccolo strumento a corde ogni tipo di suono. È sicuramente l'insieme, il tutt'uno generato da questi quattro uomini capaci di incarnarsi totalmente nella loro musica, quello che alla fine risulta così trascinante e unico.
Bellissimi brani dall'ultimo doppio “Abattoir Blues/The Lyre of Orpheus” (un album più riuscito e meno accademico del precedente Nocturama) : “Cannibal's Hymn”, “Hiding All Away”, “Babe You Turn Me On” che dedica alla moglie, e “Messiah Ward” in una versione molto più prorompente e convicente dell'originale.
Meno incisive invece, come già nei concerti precedenti, brani classici e quasi obbligati, come “The Ship Song” o “The Weeping Song” che faticano a prendere quota, probabilmente per le troppe esecuzioni, e che magari guadagnerebbero ad essere messi per un po' a riposo. Lo stesso si può dire di “God Is In The House” che, pur bellissima ed emotivamente trascinante, finisce nel solito teatrino della gente che mima in anticipo il sussurrato rovinando tutto il suo potenziale. Stupenda invece, ancora una volta, “The Mercy Seat”, in una interpretazione più rallentata, scoprendo il vuoto armonico, essenziale coperto dall’inserimento della chitarra di Mick Harvey,
che indubbiamente aggiunge più tensione e phatos al tutto.
A differenza della sera precedente a Modena, sono però mancate qui le perle rare di “Lucy”, “People Ain't No Good” e la supenda “The Loom Of The Land”, forse anche a causa della maggiore brevità del concerto. Ed è stato un peccato perché questi brani ripescati dal suo eccezionale repertorio, a volte rappresentano alcuni dei momenti più intensi e alti di un concerto. Ma d'altra parte si potrebbe anche azzardare che, proprio in questo insistere per due ore sul lato più duro, incalzante ed esplosivo della sua musica, Nick Cave abbia dato una prova ulteriore del periodo di straordinaria forma che sta vivendo. Il suo umore ìlare, lo slancio creativo verso l'improvvisazione, la straordinaria carica espressiva della sua voce e di tutta la sua persona, hanno dato, a questa performance, le stigmate di una profondità autentica, di un coinvolgimento convinto e totale.
Dopo “Stagger Lee”, che scivola come un dolce valzer nella sua ennesima stravolta versione, e “Jack the Ripper”, Nick e i suoi uomini se ne vanno. Ma gli echi della loro musica continuano ad espandersi nell'Arena e ancora dopo, a lungo, mentre uscivamo felice nella notte fresca e colorata di stelle e nuvole.