Michael Kiwanuka Small Changes
2024 - Polydor Records
(qui la recensione di Giovanni Sottosanti).
E, cinque anni dopo, eccolo tornare con Small Changes, che lo vede collaborare coi co-produttori Brian “Danger Mouse” Burton (Gorillaz, Black Keys) e Inflo (Sault, Adele, Cleo Sol), in una progressione di creatività e profondità di suoni che, da Love & Hate del 2016, sembra non arrestarsi più. Questo suo nuovo lavoro ne è una conferma: se Kiwanuka (2019) aveva stratificato il soul con l'orchestra, la psichedelia rock con le ballate, diventando istantaneamente un grande classico, Small Changes è esattamente quanto promette il titolo.
Piccoli cambiamenti, apparentemente irrisori, eppure profondi, definitivi, irreversibili, narrati con la sincerità e la complessità di un autore vero, che a tratti rasenta il crinale - scivoloso, ma attraente - della poesia, come canta in Floating Parade, brano di apertura e insieme confessione programmatica, interpretata con una voce piena di soul (inteso come anima, anche): "We can be solid but barely make a dent"; ossia, per quanto ci sforziamo di essere concreti, alla fine fatichiamo a lasciare un segno, perché "Non possiamo essere più forti della vita stessa". Pensieri folgoranti, che l'artista partorisce a 37 anni, con due figli piccoli, e una sensibilità resa ancora più acuta dalla consapevolezza della responsabilità che comporta il successo; per questo, il tessuto musicale sembra sopperire a tanto disincanto, costruendo una linea sonora che, tra archi e cori, spinge verso l'alto la nostra meditazione, liberandola dal ritmo quasi ossessivo del basso di Melody Nelson.
Perché Kiwanuka è così: alto e basso, concretezza e sogno, perfettamente fusi e realizzati in canzoni brevi e intense, dai guizzi inaspettati (l'assolo di elettrica nella title track, ad esempio), che seguono il senso dei testi, come a sottolinearne l'importanza. Si ascolti la ferma dolcezza con cui il cantautore si rivolge a una darling in One and Only: “I chased the waterfalls/I was the leaving kind (...) I hope you realise / Memories are the compromisе we need to feel alive / Though our dreams may diе / No living in disguise, all we need is time”, oppure la ripetitività solo apparente di Follow Your Dreams, in cui i riff della chitarra accarezzano il violino o un basso funky, creando tessiture che fanno da sfondo per i suoi versi.
È evidente che il cantautore abbia assimilato alla perfezione il magistero dei grandi, Bill Withers su tutti, tanto che è presente nel disco il suo batterista James Gadson, così come, in Lowdown part 1, testimoniano la continuità il basso di Pino Palladino e l'Hammond di Jimmy Jam, (Four Long Years) ma c'è dell'altro: c'è la sua cifra originale, che declina la tradizione soul e RnB in una contemporaneità artistica, che si intercetta nei morbidi overdrive o nei riff densi di synth (Rebel Soul, o Lowdown part 2, tutta strumentale e vagamente pinkfloydiana, o la già citata Follow Your Dreams), o ancora, in The Rest of Me, nel mix tra un'intro di chitarra acustica e un morbido groove che ricorda la regina Sade.
Lo aspettavamo: e l'attesa è stata ripagata da un gioiello, da ascoltare con attenzione, per riprendere fiato e fiducia nella vita e nella musica. Ora, un'altra, breve, attesa: il 3 marzo, l'unica data italiana, all'Alcatraz di Milano. (Biglietti qui.) E sarà di nuovo un concerto che medicherà ogni ferita, un'isola felice nel grigio. Del resto, per sua specifica intenzione, il disco intende creare una sorta di "feeling of utopia and peace."
L'utopia della bellezza che la musica sa creare.
Lo aspettavamo da cinque anni, da quando, con il suo secondo disco omonimo, Michael Kiwanuka si impose definitivamente come una delle voci più originali ed eleganti della propria generazione. Lo aspettavamo da cinque anni, da quando, in un Fabrique colmo ai limiti della denuncia, ci incantò con un live caldissimo, che non faceva rimpiangere i maestri del RnB (E, cinque anni dopo, eccolo tornare con Small Changes, che lo vede collaborare coi co-produttori Brian “Danger Mouse” Burton (Gorillaz, Black Keys) e Inflo (Sault, Adele, Cleo Sol), in una progressione di creatività e profondità di suoni che, da Love & Hate del 2016, sembra non arrestarsi più. Questo suo nuovo lavoro ne è una conferma: se Kiwanuka (2019) aveva stratificato il soul con l'orchestra, la psichedelia rock con le ballate, diventando istantaneamente un grande classico, Small Changes è esattamente quanto promette il titolo.
Piccoli cambiamenti, apparentemente irrisori, eppure profondi, definitivi, irreversibili, narrati con la sincerità e la complessità di un autore vero, che a tratti rasenta il crinale - scivoloso, ma attraente - della poesia, come canta in Floating Parade, brano di apertura e insieme confessione programmatica, interpretata con una voce piena di soul (inteso come anima, anche): "We can be solid but barely make a dent"; ossia, per quanto ci sforziamo di essere concreti, alla fine fatichiamo a lasciare un segno, perché "Non possiamo essere più forti della vita stessa". Pensieri folgoranti, che l'artista partorisce a 37 anni, con due figli piccoli, e una sensibilità resa ancora più acuta dalla consapevolezza della responsabilità che comporta il successo; per questo, il tessuto musicale sembra sopperire a tanto disincanto, costruendo una linea sonora che, tra archi e cori, spinge verso l'alto la nostra meditazione, liberandola dal ritmo quasi ossessivo del basso di Melody Nelson.
Perché Kiwanuka è così: alto e basso, concretezza e sogno, perfettamente fusi e realizzati in canzoni brevi e intense, dai guizzi inaspettati (l'assolo di elettrica nella title track, ad esempio), che seguono il senso dei testi, come a sottolinearne l'importanza. Si ascolti la ferma dolcezza con cui il cantautore si rivolge a una darling in One and Only: “I chased the waterfalls/I was the leaving kind (...) I hope you realise / Memories are the compromisе we need to feel alive / Though our dreams may diе / No living in disguise, all we need is time”, oppure la ripetitività solo apparente di Follow Your Dreams, in cui i riff della chitarra accarezzano il violino o un basso funky, creando tessiture che fanno da sfondo per i suoi versi.
È evidente che il cantautore abbia assimilato alla perfezione il magistero dei grandi, Bill Withers su tutti, tanto che è presente nel disco il suo batterista James Gadson, così come, in Lowdown part 1, testimoniano la continuità il basso di Pino Palladino e l'Hammond di Jimmy Jam, (Four Long Years) ma c'è dell'altro: c'è la sua cifra originale, che declina la tradizione soul e RnB in una contemporaneità artistica, che si intercetta nei morbidi overdrive o nei riff densi di synth (Rebel Soul, o Lowdown part 2, tutta strumentale e vagamente pinkfloydiana, o la già citata Follow Your Dreams), o ancora, in The Rest of Me, nel mix tra un'intro di chitarra acustica e un morbido groove che ricorda la regina Sade.
Lo aspettavamo: e l'attesa è stata ripagata da un gioiello, da ascoltare con attenzione, per riprendere fiato e fiducia nella vita e nella musica. Ora, un'altra, breve, attesa: il 3 marzo, l'unica data italiana, all'Alcatraz di Milano. (Biglietti qui.) E sarà di nuovo un concerto che medicherà ogni ferita, un'isola felice nel grigio. Del resto, per sua specifica intenzione, il disco intende creare una sorta di "feeling of utopia and peace."
L'utopia della bellezza che la musica sa creare.