Michael Kiwanuka Kiwanuka
2019 - Polydor / Interscope
Michael ha finalmente accettato il proprio valore; è uno sgobbone e non gli piace scherzare sulla sua ambizione, che per troppo tempo ha considerato sproporzionata ai propri mezzi. Ama la sua storia, Kiwanuka, ed è fiero della propria negritudine. È infatti di personalissimo Black Pride e del canzoniere dei giganti del soul e del rhythm and blues che sono informati i suoi dischi, ognuno dei quali risulta di volta in volta più ricco, articolato e compiuto del precedente. Stiamo raggiungendo i vertici espressivi assoluti che il talento inarrivabile dei suoi maestri ̶ che hanno tutti calcato le scene quando Kiwanuka non era ancora nato ̶ avevano guadagnato grazie al genio. Del suono dei dischi di Marvin Gaye, Donny Hathaway, Bill Withers ed Isaac Hayes, delle loro canzoni, Michael Kiwanuka è perdutamente innamorato. Le armonie degli strumenti e delle voci, gli organi Hammond, le chitarre acustiche e quelle elettriche, le arpe, i piani e le tastiere si fondono con gli arrangiamenti dei legni e degli ottoni con un’appropriatezza timbrica da fare invidia a Burt Bacharach.
Se vogliamo parlare della costruzione formale dei brani e della qualità del suono, dobbiamo tuttavia evidenziare come Kiwanuka non sia un menestrello che improvvisa le proprie canzoni accompagnandole con due o tre accordi alla chitarra acustica (che pure figura tra gli strumenti che padroneggia). Sono alcuni anni infatti che il musicista londinese compone i suoi pezzi insieme a Brian Burton e a Dean Josiah Cover, che coi moniker Danger Mouse e Inflo, a partire da Love & Hate, producono i suoi album e ci suonano. Le complesse stratificazioni delle sonorità, magistralmente missate da Kennie Takahashi e superbamente levigate nella post-produzione da Matt Colton, valorizzano come meglio non potrebbero la voce e le melodie dell’artista di origini ugandesi. Si tratta insomma di un riuscitissimo lavoro di squadra, capace di fare la differenza rispetto ai tanti dischi penalizzati in sede di registrazione da personale di studio privo delle competenze, del talento o delle intuizioni dei collaboratori che affiancano l’autore di ‘Cold Little Heart’. Tanta perizia tecnica e digitale, paradossalmente, esalta l’anima analogica di Kiwanuka, cucendogli addosso un’aura retro che anche grazie al suo successo è tornata di moda e lo tagga come irresistibilmente cool.
Rispetto al già eccellente Love & Hate, la marcia in più posseduta da Kiwanuka è la consapevolezza del suo valore da parte dei responsabili dell’architettura sonora, i cui segnali più evidenti sono alcuni ben individuabili aspetti formali, lirici e di arrangiamento. A scongiurare il rischio che il disco venga percepito soltanto come una pur ottima raccolta di canzoni interviene infatti l’ambiziosa scelta di evitare ‒ o quasi ‒ qualsiasi soluzione di continuità tra un pezzo e l’altro e l’inserimento di intros ed interludes tra i brani stessi. Ci sono inoltre delle opzioni in sede di produzione molto coraggiose e che non passano inosservate, la prima delle quali è rappresentata dal suono della batteria, che arriva come da un’altra stanza rispetto a quella in cui si incidono le vocals e che tuttavia o proprio per questo dà un taglio timbrico originalissimo a tutto il disco. I cori, poi, riproducono armonie spensierate che fanno tanto Supremes mentre funzionano da controcanto a liriche angosciate e ipocondriache. È infine da notare come molti pezzi siano talmente ricchi di ritmo e di melodia che se ne potrebbero trarre due o tre, inducendo l’ascoltatore, anche dopo una decina d’ascolti, a scoprire ogni volta una citazione o una trovata che lo rimandano agli Earth, Wind & Fire, omaggiano Gil Scott-Heron, arieggiano Beck o Moby. Le canzoni che fin dal primo ascolto si qualificano come splendide sono ‘Rolling’, ‘Piano Joint’, ‘Living in Denial’, ‘Hero’ e ‘Solid Ground’. E poi c’è lei: ‘Final Days’, la ‘Inner City Blues’ di Kiwanuka. Immensa, sofisticata, scontrosa, sensuale e commovente. L’artigiano Kiwanuka, il brutto anatroccolo scopertosi maestoso cigno, dopo essersi meritato il rispetto e la considerazione riservati agli artigiani affidabili, guadagna con il suo terzo lavoro la qualifica di grande artista. Chapeau!