live report
Michael Kiwanuka Milano / Fabrique
Concerto del 07/12/2019
Michael Kiwanuka ha solo 32 anni, ma il suo nome è ormai da diverso tempo impresso a fuoco nel firmamento delle nuove stelle del neo soul, funk e psichedelia. Tre album più un live per aprirsi un'autostrada verso il successo e conquistare generazioni eterogenee di appassionati. Da Home Again del marzo 2012 all'omonimo Kiwanuka di fine ottobre scorso, sette anni in cui il ragazzo di Muswell Hill ha visto crescere in maniera esponenziale il proprio consenso presso pubblico e critica, in un'affascinante commistione tra soul classico, r&b, funk e psichedelia. Non nuovo ai palchi italiani, stasera trova un Fabrique decisamente pieno di calore e passione, con un pubblico vario per età e molto competente.
Ci pensa la voce celestiale di Celeste a innalzare il livello emozionale dell'auditorium e il gioco di parole è del tutto voluto per spiegare in modo esaustivo le qualità della giovane singer songwriter inglese. Un approccio soul jazz con tinte r&b e una voce che ti spiazza prima e ti conquista poi, per un'apertura che, una volta tanto, non trascorre nell'indifferenza generale in attesa dell'headliner.
L'incedere lento e avvolgente di Piano Joint apre la strada alla band, quando poi la zazzera afro di Michael prende possesso del centro palco è già tutto scritto, stasera niente sconti, si accendono i motori e il Fabrique è definitivamente pronto per il decollo. You Ain't The Problem scatena l'offensiva a base di funk e afrobeat, siamo solo al secondo pezzo e già ballano tutti. Ci pensano Rolling e I've Been Dazed a illustrare ulteriormente l'ultimo album tra ballad sinuose e strappi black, mentre Black Man In A White World avvolge la sala con un ritmo ipnotico e incalzante. Per Michael si sono spesi paragoni con nomi altisonanti, come Curtis Mayfield, Marvin Gaye e Bill Withers, ma anche Sam Cooke, Otis Redding e Terry Callier. Stasera i suoi numi tutelari sono tutti sul palco con lui e con la splendida band che lo supporta alla grande, muovendosi come un corpo unico tra chitarre, basso, batteria, percussioni, tastiere e cori. È una festa totale, unica, come una catarsi collettiva, un unico canto di gioia e di liberazione che si leva dal palco per riversarsi poi sul pubblico e da qui tornare agli artisti, sollevandoli in un abbraccio globale. Non ci sono cali di tensione né segni di stanchezza, la faccia di Michael trasmette gioia e gratitudine, in alcuni momenti appare come rapito e trasportato altrove dalla sua stessa musica.
Rule The World e Hero arrivano dritte dai sixties con una voce che scava l'anima e una chitarra acustica in primo piano, mentre Tell Me A Tale e Rest girano tra i solchi di Home Again portandosi dietro un sentimento di struggente nostalgia. Ancora un momento introspettivo rappresentato da Light, prima degli ultimi sussulti di psichedelia soul con Living In A Denial, Final Days e Solid Ground. Non può finire così, perché le feste non finiscono mai e allora Hard To Say Goodbye apre i bis su un quadro scuro e tagliente, poi arriva Home Again e riporta tutto a casa con una ballad di quelle che si scrivevano negli anni '60, intensità ed emozioni a grappoli. Si chiude però con gioia, niente malinconie, il cuore deve tornare a casa con le vibrazioni giuste e allora Cold Little Heart riprende a pulsare una lunga e interminabile cavalcata psichedelica prima che Love & Hate sciolga definitivamente le briglie attraverso un mantra finale, definitivo, purificatore. You can't take me down, you can't break me down, non puoi buttarmi giù, non puoi distruggermi, Amore e odio. Stasera solo Amore, tanto Amore.