Massimo Zamboni L’inerme e l’imbattibile
2008 - Il Manifesto
Quando ti accorgi che tutti i giorni segui qualcosa senza sapere cosa sia, e questo qualcosa è il vuoto. Molte volte anche se sei circondato da tanta gente ti senti solo e questa solitudine non è dovuta ad un fatto fisico, è qualcosa di spirituale. E Massimo Zamboni, chitarrista storico dei CCCP e CSI, quelle spiritualità e quelle solitudini rinate a vita dalle macerie della guerra in Bosnia, le fissa in un documentario: “Il tuffo della rondine” di Stefano Savona corredato da un diario di viaggio. Ma principalmente in un disco “L’Inerme e L’Imbattibile” il quale parte da un punto sonico ben circoscritto: Mostar, per un viaggio verso tutti gli Est del mondo.
Questo nuovo lavoro di Zamboni nasce dal suo vissuto con i Csi e soprattutto dal ricordo di un concerto memorabile a Mostar circa dieci anni fa, e quella grande esperienza gli ha lasciato un grande debito artistico e , tornando là, in quei posti, riscopre tante storie interessanti, di gente che ha voglia di raccontare gli anni della guerra. Ed è questa la scintilla da cui scaturisce l’intero album, da questo pugno di canzoni ma che, oltre per la complessità dei temi esplorati, risulta ostico nell’ ascolto per via dei tiraggi sonici stridenti che allungano all’inverosimile - tanto da ridurre all’osso - l’abstract delle liriche.
Zamboni non ha mai abbandonato la sua chitarra abrasiva, urticante, ma purtroppo si porta dietro troppo dell’enfasi di quel capolavoro targato CSI che è stato “Linea Gotica”; troppo di quei patemi dannati ora qui zittiti in lounge che rasentano la tensione della noia, e poco entusiasma la voce lirica di Marina Parente, alterego classica delle rarefattezze di Ginevra Di Marco. Ancor di meno - e lo diciamo con rabbia – portano in alto il livello dell’intero registrato le citazioni dotte di Primo Levi, Ungaretti e altri vati; il tutto è troppo proteso verso un certo move sonico appariscente, di qualcosa che è già stato recepito tra le note.
L’artista ribelle che con il suo fervore chitarristico ci ha regalato momenti di pura gioia adrenalinica nel suo passato punk filo-sovietico e dolcezze inestimabili nell’inversione/conversione all’interno del CPI, calca troppo la mano nell’effetto e tralascia la poetica, tanto da rendere questo disco portatore di poca comprensione e interesse. Se si eccettuano “Don’t forget e “Quasi tutti”, e magari aggiungendoci pure quel pizzico di trip-hop che si insinua in “Quando se non ora”, allora un sensibili rialzo termico uditivo si percepisce, ma poi da “Prove tecniche di resurrezione” in giù tutto scorre nell’anonimato e nel distratto.
Meglio fermarsi al documentario o leggere il diario di viaggio; ma dispiace per questo artista emiliano che rimane comunque un grande punto fermo per quello che è e per quello che è stato sulla scena alternativa italiana.
Intanto Zamboni si muove in lungo e largo per lo stivale con il suo concerto-spettacolo “L’estinzione di un colloquio amoroso”, ed è proprio il concetto di questo titolo che fa – purtroppo - da padrone in questa prova discografica: più che imbattibile, inerme.