Massimo Zamboni La Macchia Mongolica
2020 - Universal
La Mongolia che ispirò Tabula Rasa Elettrificata (1997), con cui i C.S.I. arrivarono alla posizione numero 1 in classifica. La Mongolia che fece riflettere Massimo sul desiderio di paternità, e a questo punto sembra non essere un caso che la figlia Caterina sia nata con la macchia mongolica sulla pelle. Dal desiderio della ragazza di visitare la Mongolia, quasi un moderno nostos, è nato il disco, La Macchia Mongolica appunto, accompagnato da un libro, scritto da padre e figlia, e un film, diretto da Piergiorgio Casotti.
La Mongolia è la terra di Gengis Khan ma soprattutto è un luogo ancora ampiamente incontaminato e in cui prevale il nomadismo. Questo movimento costante sembra trasferirsi nella ricerca sonora di Massimo Zamboni, che si avvale della collaborazione di Cristiano Roversi (già presente nel precedente Sonata a Kreuzberg) e Simone Beneventi.
La Macchia Mongolica è un disco quasi interamente strumentale, con eccezioni come la conclusiva Lunghe d’ombre, nella quale il pizzicare le corde riporta a una dimensione artigianale della costruzione di una canzone, se non della stessa vita, al poter “comprendere di esistere tra noi”, al poter andare alla propria velocità di crociera durante quel vivere che è “un atto di esclusione”.
Huu è una lenta preghiera che piano piano culla l’ascoltatore portandolo a raccogliersi quasi in modo fetale, mentre le chitarre taglienti e insieme ariose de I cammelli di Bactriana sembrano quasi voler svegliare il viaggiatore, perché è ora di partire, il viaggio è lungo e il mondo da conoscere così vasto che non può attendere. C’è la Mongolia interna che aspetta, c’è la consapevolezza dei propri tempi e delle proprie necessità ad accoglierci.
Ecco, forse il vero messaggio de La Macchia Mongolica è questo. È un invito ad ascoltarsi, a cercare la propria Itaca, che sia nel deserto del Gobi, nei boschi emiliani o ovunque noi riteniamo ci sia il nostro Altrove.