John Hiatt Terms Of My Surrender
2014 - New West / IRD
Terms of my surrender è un ritorno alle origini, è una scommessa, è un gioco ironico, è una partita con la vita e il tempo; Hiatt è sicuro di sé, della propria autorevolezza nel mondo musicale americano, e qui si apre completamente, senza nessuna volontà di sperimentazione, con immediatezza e sincerità, rispetto per le radici e bisogno di raccontare come ci si sente ad aver vissuto sei decadi di una vita spesso dura e impietosa.
Per un progetto tanto lineare quanto arduo, Hiatt si affida alla produzione di Doug Lancio, suo chitarrista storico, che ha militato con artisti come Patty Griffin, il quale gli propone di suonare in acustico; l’effetto è quello di un’immediatezza roots, che ben si intona con lo spirito dell’album, fra l’altro inciso dal vivo, in un paio di takes, in un piccolo studio a Nashville, con The Combo, la band che accompagna Hiatt negli ultimi anni in tour (oltre a Lancio, che suona mandolino, banjo e chitarre, Jon Coleman alle tastiere, Brandon Young alle seconde voci, Nathan Gehri al basso e Kenneth Blevins alle percussioni).
Hiatt, proprio come Springsteen, Dylan, Young, non ha bisogno certo di comporre un nuovo album per ottenere un successo che già possiede, per avere la motivazione ufficiale per un nuovo tour, per conquistare una nuova fetta di pubblico. Molto probabilmente il motivo è che Hiatt si diverte a comporre, a suonare, e crede fortemente di avere ancora qualcosa di interessante da comunicare, come un loner davanti al fuoco in una sera di festa desidera raccontare le sue esperienze di vita, la sua visione disincantata e mai doma dell’esistenza, le sue avventure al limite.
La voce è giusta, per questo: roca ed espressiva, arrugginita dai troppi drinks, spontaneamente poco impostata, con qualche guizzo di beffarda ironia, come nella ballata fintamente facile Old people, in cui Hiatt si diverte a difendere in modo politicamente scorretto l’old people , di cui sente di fare parte, con tutte le debolezze, gli egoismi e i malumori delle persone anziane. La sua voce, da crooner alla rovescia, punta a trovare l’armonia nelle note discordanti, nei toni calanti, per esprimere al meglio la difficoltà ad accettare con dignità e furibondo amore il tempo che passa.
In una recente intervista via e-mail, Hiatt ha proclamato: “Primo, non voglio arrendermi; secondo, l’amore lo richiede. Terzo, arrendersi all’amore può essere un percorso verso la libertà. Quarto, l’amore non pone limiti. Quinto, c’è bisogno di un tipo speciale di persona per apprezzare un uomo grasso in perizoma” (riferendosi a un verso della canzone che dà il titolo al disco, “Sometimes love can be so wrong/Like a fat man in a thong”). Basterebbe questo particolare per descrivere il carattere del cantautore dell’indiana; ma c’è dell’altro.
Ci sono pezzi indiscutibilmente bluesy, in spirito e parole, come Here to stay o Nothin’ I love, ma in cui il sarcasmo smorza ogni pericoloso rischio di autocommiserazione; ci sono le tracce in apertura e chiusura del disco, rispettivamente Long Time Comin’ e Come Back Home, che contengono versi lucidissimi e profondi, a dispetto di un tono musicale morbido, da canzone d’amore popolare. E ci sono brani divertenti come Marlene o Baby’s gonna kick, ricche di autoironia: i versi “I'm riding downtown about a John Lee Hooker/ got my mind on a slow meat cooker”, cantati da chi, in giovinezza, aveva aperto dei concerti proprio di Hooker, producono un effetto straniante e fanno ancor meglio capire il senso del progetto di Hiatt. Voler recuperare suoni autentici, per parlare in modo autentico di problemi autenticamente umani, come l’amore, l’amicizia, il trascorrere della vita, è il vero scopo di Terms of my surrender; un obiettivo pienamente riuscito.