John Hiatt Beneath this gruff exterior
2003 - NEW WEST RECORDS
“Beneath this gruff exterior” non fa eccezione, nonostante sia il primo album di Hiatt per la New West Records. Nessuna svolta quindi, anche se si registra un passo avanti rispetto al precedente “The tiki bar is open”, che scorreva bene, dando però l’impressione di non sfruttare tutte le potenzialità di questo cantautore.
La formula rimane la stessa: un rock venato di blues e di rhythm’n’blues, di cui Hiatt si è impossessato da tempo, con una voce che è un impasto del Delta nero e della bianca provincia americana. Anche stavolta è fondamentale la chitarra di Sonny Landreth, una delle più interessanti in campo rock blues dopo quelle di Warren Haynes (Gov’t Mule, Allman Brothers Band) e di Luther Dickinson (North Mississippi All stars): la sua slide è perfetta in cominazione col canto di Hiatt ed è qua più libera di frammentare la materia con le sue piccole accelerazioni cajun.
Rimane il sospetto che qualcosa di più si potesse osare: manca forse una sezione ritmica altrettanto originale e non è un caso che il miglior disco di Hiatt, “Bring the family”, vedesse alla batteria un certo Jim Keltner (oltre a Ry cooder e Nick Lowe). O forse una scelta estrema di un disco a due con Landreth avrebbe giovato alla natura delle canzoni, tirando fuori il meglio della voce di entrambi i protagonisti e offrendo un paesaggio unico, più consono alla loro anima blues: il tutto avrebbe dato la possibilità ad Hiatt di riallacciarsi a “Crossing muddy waters” e sarebbe stato meno slegato da quell’aria di epica quotidiana che si respirava nel trittico di “Bring the family”, “Slow turning” e “Stolen moments”.
Anche così com’è, “Beneath this gruff exterior” riesce comunque a coinvolgere con alcuni pezzi che vanno oltre la soglia di casa: sono “My dog and me” e “Missing pieces”, ovvero i due brani più spogli dell’album, con Landreth al dobro.
Altre canzoni avrebbero potuto essere dello stesso livello, ma mancano invenzioni ritmiche capaci di valorizzare le sferzate slide di Landreth, abile a scomporre proprio dove Hiatt costruisce. Si dice che dal vivo i Goners facciano faville, ma in studio si dimostrano una spalla troppo ideale per un Hiatt, sempre grande nella scrittura e nell’approccio all’interpretazione rock-blues: manca qualcuno che aumenti stimoli e contrasti, che dia a pezzi come “Nagging Dark” e “My Baby Blue” quel grip che li rende memorabili, come succede nel finale di “The Most Unoriginal Sin” con la voce ululante di John che si riflette nei luccichii del dobro di Landreth.
Quando gli equilibri si spezzano, la musica di Hiatt fa venire i brividi. È solo questione di tempo, di anima e di adrenalina, e ne uscirà un disco di razza. Magari proprio il prossimo.