Una miriade di nomi allora esordienti, alcuni ancor oggi saldamente sulla scena, magari con scelte artistiche completamente diverse da quelle che li videro allora, altri scomparsi definitivamente dalle morse dell’industria musicale, altri ancora lasciati a margine per un periodo più o meno lungo e tornati poi solo recentemente a riaffacciarsi sulla scena, vuoi per sfida, per curiosità, o semplicemente per proporre nuove idee. Di quest’ultima categoria fa parte Garbo, artista anomalo e per certi versi trascurato dalla critica ufficiale e solo in tempi recenti recuperato anche grazie ad un favorevole recupero delle esperienze di quegli anni.
I suoi primissimi album, oggetti rari e da tempo esclusivo appannaggio di collezionisti o di fortunati possessori di cassette irrimediabilmente deteriorate dagli anni, sono da oggi stati ristampati fedelmente con relativo e consueto lavoro di rimasterizzazione. Si compie così un´altra tappa del recupero di una discografia preziosa per un autore assolutamente di culto.
La prima uscita “A Berlino… va bene”, datato 1981, è un album di fondamentale importanza se non altro per la title-track, il cui ascolto nella versione originale è un’emozione che riesce a ripercorre in un brivido le distanze lunghe un intero quarto di secolo che la separano da noi. I suoni sono inevitabilmente datati così come gli arrangiamenti sintetici, ma il cantato spavaldo e romantico è senza dubbio quello di un interprete di rara intensità. La sequenza dei brani è una prosecuzione del brivido di cui sopra, ciascuno qui elemento indispensabile per l’equilibrio dell’intero album, tra lezioni di pop sofisticato (Dans une nuit ainsi, On the radio), hit danzerecce (Futuro, Anche con te va bene), bizzarri frammenti cantautorali in lingua (Lili Marlene), e mirabili sperimentazioni, come nella conclusiva straordinaria “Mekong”, lunga composizione che chiude i 38 minuti di questo album con uno sguardo senza complessi di inferiorità alle esperienze di Laurie Anderson e Tuxedomoon.
La copertina, mantenuta integralmente insieme alla grafica originale e accompagnata da una breve presentazione dello stesso Garbo, richiama alla mente quella del coetaneo “J’accuse… amore mio” di Faust’o, per certi versi album gemello e che ripercorre le medesime atmosfere di desolazione e inquietudine generazionale. Certo, se da una parte ci sono le occhiaie, i capelli scompigliati e la sigaretta pendente dalle labbra di Faust’o, da quest’altra il volto di Garbo è patinato e non si fa nulla per celare un’eleganza esemplare e un sottile velo d’ambiguità, caratteri distintivi che accompagnano anche oggi le gesta del nostro.