Francesco Guccini L’ultima Thule
2012 - EMI
Il tempo è un tritacarne implacabile, oggi soltanto “stoviglie color nostalgia”. Quasi mezzo secolo che il Maestrone ce le scrive, ce le canta e ce le suonicchia pure, con la sua erre moscia, il disincanto, la cultura, l’aria da zione un poco saggio e un poco beatnik, come soltanto i puri di cuore e i cantautori doc riescono a essere. Con L’ultima Thule è deciso, passerà la mano: da qui in avanti Guccini potremo soltanto leggerlo dentro i “gialli” che va scrivendo con Loriano Macchiavelli, oppure recuperarlo vintage attraverso le sue tracce-madaleine, sparse tra live e (sedici) album in studio, groppone in gola annesso & connesso.
Va detto subito: L’ultima Thule non suona come un disco-caposaldo. Non è Amerigo, per intenderci. E non è nemmeno Radici o Via Paolo Fabbri. Si afferma piuttosto come un lavoro fedele alla linea gucciniana anni Novanta-Duemila (e spiccioli). Il Guccini consueto come hai imparato ad aspettarlo & sperarlo a seguito di protratta astinenza e (altri e diversi) ascolti penitenziali, per farla breve.
Un make-up per orecchie e cervello: otto stazioni di ontologia minima, a tagliare trasversalmente canzoni di notte (senza contare Notti, siamo al capitolo 4), esistenza e resistenza (Su in collina - traduzione della poesia dialettale Mort en culleina di Gastone Vandelli; e Quel giorno di Aprile), basso-chitarra-batteria (+una spruzzata di fisarmonica e sax: il cast dei musicisti è quello rodato di sempre: Bandini-Biondini-Marangolo-Tempera, con il supporto di Roberto Manuzzi e Pierluigi Mingotti), serio e faceto (Il testamento di un pagliaccio), distinguo professionali (Gli artisti), locuzioni tanto desuete e colte che Jovanotti se le sogna (la “battola”, la mitologica “anfesibena”, il prendere a “gabbo”, il fiume che “muglia”, gli animali nelle “roste”).
E almeno due capolavori assoluti, la malinconica, fin quasi allo struggimento, L’ultima volta (“Sarà quando quell'ultima volta/ che la vedi e la senti parlare/ quando il giorno dell'ultima volta/ che vedrai il sole nell'albeggiare/ e la pioggia ed il vento soffiare/ ed il ritmo del tuo respirare/ che pian piano si ferma e scompare”), e la title-track, rimando diretto a una foto di copertina quasi poeiana (ricordate lo spaesamento tra i ghiacci di Gordon Pym?), livida, intirizzita, affascinante al contempo, con diversi sensi traslati, un tragitto - sul filo di metafora - più a Nord del Nord, alla ricerca del capolinea, forse anche della dimenticanza (“L’Ultima Thule attende e dentro il fiordo/ si spegnerà per sempre ogni passione,/ si perderà in un’ultima canzone/ di me e della mia nave anche il ricordo”).
Non una rimozione, non una resa, non una fuga vigliacca, piuttosto un rendez-vous con se stessi e il senso ultimo della vita, dopo anni affollati di piazze praticate-subite-celebrate (compresa la genovese piazza Alimonda), rivoluzioni mancate per un soffio, frasi di canzoni, avvelenate, bevute, cazzeggi, frati, America, Paperino, Roland Barthres, storie ignobili quante ne vuoi, e pure diverse stanze di vita quotidiana. Un modo come un altro per uscire di scena in forma non ufficiale, congedarsi senza chiasso, senza frasi storiche, senza un ultimo concerto, a testa alta. Come può permettersi soltanto chi sa, bene o male, di avere vissuto. O, al peggio, cantato. Che non è, parimenti, cosa da poco.