Ennio Rega Lo scatto tattile
2007 - Scaramuccia Edizioni
“Lo scatto tattile” era stato anticipato da un Ep (“Scritture ad aria”) in cui i brani erano decisamente più orientati verso le componenti liriche e crepuscolari dell’autore; questo disco che ne è l’estensione si muove sugli stessi canali. C’è la delicatezza amara di “Lucciole” che conferma una decisa personalità nei versi delle canzoni di Rega, testimoniata del resto fin dall’inizio del disco con le escursioni nella voce de “Il camminatore”, fra aperture di canto e parlato a richiamare quell’influenza spinta verso il teatro che aveva segnato anche “Concerie”.
Vi è la bella “Scritture ad aria” che già avevamo avuto modo di notare nell’intervista, dove le orchestrazioni, l’arrangiamento degli archi e la voce si tengono stretti nel procedere della strofa e nell’apertura del ritornello. Arrangiamenti e produzione sono curati da Rega e da Lutte Berg, fondamentale chitarra che aveva segnato e caratterizzato anche i precedenti lavori.
È rimasto lo sguardo verso la contemporaneità, con il parlato di “Sui gradini in piazza (Vittorio)”, constatazione amara di una realtà che riguarda la nostra società e che sfocia in un ritorno di gaberismo in “Un treno di conseguenza”.
L’impressione che Rega abbia avuto più voglia di spingere sul pedale della poesia arriva anche dall’aver musicato due liriche di Pessoa, “La poesia”, aperta da pianoforte e chitarre, e “Nulla”.
A far coppia con la precedente parlata vi è “Sui gradini in piazza (Daniele)” che apre a “Il mio amico del novecento”, brano critico nei confronti di un cambiamento nel modo di pensare. Punta contro la chiusura in caste che persiste e contro la perdita della praticità perché “malgrado sia un creativo ha ben poco da creare”.
Bello lo swing de “Il professore” che sottolinea la formazione musicale estremamente variegata di Rega a cavallo fra i grandi italiani vecchio stile (Modugno, Carosone…) e gli americani.
“Lo scatto tattile” è un bel disco, studiato e ben suonato, sorretto da liriche che nulla hanno a che vedere con la banalità ma si tuffano nell’invettiva ironica come nel crepuscolarismo di “Cara stai calma” che chiude la scaletta.