Occorrono ripetuti ascolti e numerose discussioni silenziose per farsi un’idea definitiva su ´What will we be´, settimo lavoro di Devendra Banhart. Manierato, curato e ben fatto – tutti elementi che rischiano di far emergere, a fatica dal prezioso tessuto sonoro, l’animo nudo e acerbo che in passato ci ha rivelato. Troppo facile tirare le somme e giudicarlo solo per alcuni aspetti (più esteriori) e concludere che Devendra è sempre più famoso e sempre meno ispirato. È vero, è passato ad una major; è vero anche che è apparso nei giornali di gossip di tutto il mondo mentre (e perché) amoreggiava con l’attrice Natalie Portman. Ma il discorso da fare è un altro e più complesso; riguarda il paradosso che spesso si verifica in musica: si pretende che un artista resti allo stesso punto o ci si lamenti altrettanto quando decide di modificare il proprio stile – magari come in questo caso, abbandonando un approccio totalmente folk e scarno.
Rejoicing in the hands e Niño Rojo entrambi del 2004 sono senza dubbio le sue prove migliori che ci hanno fatto innamorare di lui e pretendiamo di rivivere gli stessi turbamenti, che Banhart resti a quel punto, che continui a regalarci emozioni acustiche quasi denutrite, scevre dalle tante contaminazioni sonore (da sempre presenti, ma ora meno garbate) e dai pot-pourri melodici che mischia nelle sue ultime prove.
Sbirciando qua e là ci si rende conto che nessuno ha elogiato questo ´What will we be´ (Pitchfork l’ha dirittura penalizzato con un 4/10!), ma la motivazione che tutti ne danno resta nostalgica. Credo che un’insufficienza grave si deve dare ad un brutto album, non ad un artista che ci ha personalmente delusi: è vero che questo disco non convince molto, ed è il peggiore della sua carriera, ma l’origine della perplessità va cercata nel disordine che lo pervade, nel repentino cambio di ritmi, spesso ingiustificato, a volte forzato - come nel caso ´Angelika´ che inizia in dolcezza e a metà brano assume un ritmo brasileiro/latino da ascoltare in costume da bagno.
È bello che Devendra giochi con i ritmi con la stessa facilità con cui si lanciano dei dadi, ma manca un collante, un adesivo che tenga coeso il tutto. Ancora più eclatante è ´Chin Chin & Muck Muck´: un centone di canzoni diverse, tutte piacevoli ma clamorosamente slegate fra loro. È però ancora in grado di stupire quando si cimenta in ritmi pop-dance: in ´16th & Valencia, Roxy Music´ sembra di scorgere un novello Mika che si dimena in balletti febbrili sulla spiaggia di Salvador de Bahia, mentre in ´Rats´ troviamo psichedelia ed echi 70’s, i Doors, i Led Zeppelin, Iggy Pop, infine ´Foolin’´ è puro reggae. Interessanti e convincenti sono ´Baby´, che è forse la più tradizionale, nel suo seguire la forma-canzone classica e nel suo richiamo a Lou Reed - e ´Goin’ back´, che ha un andamento che ricorda il Nick Drake ´ritoccato´ e infarcito di Bryter Layter. Incantevoli le note di pianoforte che volteggiano in ´First song for B´, mentre con una lagnosa ´Maria Lionza´ affronta come suo solito il lungo minutaggio in simbiosi con la soporifera ´Meet me at lookout point´.
Molti i difetti di questo ´What we will be´, ma lungi da giudicarlo un brutto album – soprattutto dopo ripetuti ascolti e numerose discussioni silenziose. Siamo certi che Devendra, anche se non sforna album memorabili da qualche anno, sotto la superficiale e momentanea patina, nasconde una grazia e una capacità compositiva sorprendenti.