Devendra Banhart Smokey rolls down thunder canyon
2007 - Xl Recordings
Solo che non ci riesce. E più ci prova, più ricade negli stereotipi di cui vorrebbe liberarsi.
Abbandonato la formula solitaria dei primi album, si è messo a fare dischi lunghi, a cui partecipano una miriade di musicisti e in cui passa in rassegna altrettanti generi. Sarà la volontà di stupire, di spiazzare, oppure il tentativo di assecondare ogni rivolo della propria creatività, fatto sta che il risultato non cambia: “Smokey Rolls Down Thunder Canyon” è un altro disco piacevole, sognante, ma allo stesso tempo estremamente discontinuo.
Bisogna riconoscere a questo atipico texano la capacità di dare alle sue registrazioni un’atmosfera in cui immergersi, cosa che manca a troppe uscite degli ultimi tempi. Tutto riconducibile agli anni ’60 / ’70, ma la cosa potrebbe funzionare meglio se Devendra lavorasse con un minimo di logica e passasse ogni tanto al setaccio il suo materiale. Probabile però che così non sarebbe lui e i suoi dischi non suonerebbero tanto liberi.
Nel giro di sedici tracce il giovane (in fondo ha solo ventisette anni) suona di tutto: folk, bossanova, samba, soul, doo-woop, funk, gospel, rock, reggae. Tra gli ospiti troviamo la folksinger Vashti Bunyan, Chris Robinson dei Black Crowes, Nick Valensi degli Strokes, il rocker brasiliano Rodrigo Amarante , l’attore messicano Gael Garcia Bernal e così via in una lista che sembra quella di un party.
A più riprese viene da chiedersi perché Banhart esageri tanto. E, se ci si ferma a pensare, non si capisce cosa centrino i giochetti funky di “Lover” con i vaghi echi dei Doors che emergono in più di un pezzo. Piuttosto che certe interpretazioni (deboli) a la Veloso con le vocals anni ’50 di “Shabop Shalom”.
La risposta, se c’è, sta in un pezzo come “Seahorse” che parte come una ballata bucolica con tanto di flauti e poi a metà strada improvvisamente sterza e si mette a fare il verso ad una suite anni ’60.
Può affascinare come può irritare Devendra Bandhart.
Anche ai meno estremisti si consiglia comunque di non avere troppe aspettative e di mettere in conto il rischio di perdersi , perché l’unico modo per entrare nei suoi dischi è ormai quello di seguirne i fili di fumo nel più totale abbandono.
Fino a raggiungere l’incoscienza. Come facevano gli hippie, appunto.