Devendra Banhart Rejoicing in the hands
2004 - XL RECORDINGS / YOUNG GOD RECORDS
Devendra Banhart è fondamentalmente un “diverso”: ha preso nome da un mistico indiano, è cresciuto in Venezuela, si è poi trasferito a San Francisco, Parigi, Los Angeles, prima di approdare a New York, il che non è il cammino abituale di un cantautore nato in Texas. Adottato dalla Young Records e prodotto da Michael Gira, può essere associato per sommi capi alle ultime generazioni di cantautori angloamericani (diciamo da Will Oldham a Iron & Wine), ma la sua voce è tra le più personali emerse ultimamente.
“Rejoicing in the hands” è la sua seconda prova (c’è anche un Ep di mezzo) e segna un bel passo avanti rispetto al precedente “Oh me oh my”: al di là del fatto che il disco suona meno casalingo, essendo stato registrato in studio con l’aggiunta di qualche sovraincisione, sono le interpretazioni che dimostrano una crescita e una maggior sicurezza. Devendra non ha la voce di un Damien Rice, non fatevi ingannare dai paragoni e dall’affinità acustica, ma focalizza i suoi brani su quello che lo stesso Gira chiama “psych-folk”, ovvero una sorta di trip acustico e naive, che, senza fare nulla di trascendentale né al canto né alla chitarra, evoca emozioni sopite.
Si potrebbero citare John Martyn, Nick Drake, Tim Buckley, ma sono nomi che risultano fuorvianti, anche perché usati ed abusati negli ultimi tempi.
La diversità di Banhart sta nella sua indole freak, sottolineata da un look con tanto di barba incolta da hippie: questa traspira dalle sue canzoni e le rende delle brevi esperienze emotive, sussurrate come una om, lunatiche come un folk-blues.
Il ragazzo, ricordiamo che ha soli ventitre anni, parla un linguaggio suo, un po’ alla Brychan, anche se non ha un suono istintivo che “spacca” come quello del gallese: da una parte ci sono filastrocche come “Todo los dolores” o trame fragili come “Autumn´s child” e dall’altra folk oscuri, dalle cadenze gospel come “Will is my friend”. Non so se Banhart sia più un mistico o un figlio unico segnato da qualche menomazione, ma sta di fatto che le sue canzoni mettono in atto la (ri)scoperta di una semplicità fortemente sensoriale e percettiva. Anche quando le percussioni o un contrabbasso arrivano a rimpolpare pezzi come “Fall” e “Insect eyes”, lui non smarrisce la sua essenzialità, anzi la sua interpretazione ne esce rinvigorita, tanto che queste due canzoni sembrano indicare una via che potrebbe riservare ulteriori sorprese.
Banhart non va considerato una nuova stella né rinchiuso in generi o improbabili scene: è un cantautore libero, che va per la sua strada, a volte parallela, a volte alternativa a quella dei nostri tempi. Tanto che pare che ci sia già un nuovo disco in arrivo per settembre.