
Cowboy Junkies Early 21st century blues
2005 - Latent Recordings
Già il precedente “One soul now” aveva mostrato come i Cowboy Junkies siano ancora capaci di produrre delle autentiche perle e di imbastire un progetto sensato a partire da alcune cover: l’Ep allegato a quel disco era esemplare di un’arte discreta e pacata, se si vuole minore, che i fratelli Timmins hanno sempre coltivato. Solo che “One soul now” era un disco vero, compiuto, mentre questo “Early 21st century blues” rimane un oggetto per fans, un lavoro non completamente sviluppato.
Lo si può accostare a “Rarities, b-sides and low sad waltzes”: dischi apprezzabili, che incuriosiscono, ma che non lasciano un segno nel cammino della band.
Negli ultimi anni i Cowboy Junkies ci hanno abituati a lavorare in questo modo, pubblicando on line sul proprio sito www.cowboyjunkies.com e dando priorità al rapporto con pubblico e fans.
“Early 21st century blues” è il risultato di questo approccio indipendente che la band ha sempre avuto, ma anche di uno sguardo preciso sui tempi.
Per quanto Margo e Michael abbiano aggiunto qualche altro brano alla loro collana di cover, il disco non è uno sfizio fine a sé stesso: trova un suo senso proprio nella scelta dei brani, tutti attenti ad esprimere un punto di vista contrario alla guerra.
Bob Dylan, Bruce Springsteen, John Lennon, George Harrison, Richie Havens e U2 vengono interpretati senza alzar la voce e senza lanciare proclami. Come nel loro stile i Cowboy Junkies richiamano ad un equilibrio profondo da assimilare piano.
Certo l’ennesimo pezzo di Springsteen o “One” degli U2 sono scelte scontate; verrebbe da pensare che siano finalizzate a vendere qualche copia in più, invece nell’insieme dell’album risultano sincere, coerenti con il tentativo della band di riportare tutto ad una forma di canzone che sia autenticamente folk.
Rimane l’amaro in bocca perché i brani migliori sono i due inediti a firma di Michael Timmins: “December skies” è una ballata in cui la voce di Margo riesce di nuovo a far tremare sollevandosi appena, mentre “This world dreams of” è un pezzo più blues in cui si rimane avvolti senza possibilità di uscita.
Gli arrangiamenti roots e le chitarre di Michael Timmins, con la loro psichedelia sobria, danno come sempre fascino e mood. A stupire è soprattutto “I don’t want to be a soldier”, un funk ipnotico di oltre sette minuti, eseguito come fosse improvvisato durante un raduno pacifista con tanto di intervento rap.
Per il resto, anche nelle sue cover più “rinomate”, “Early 21st century blues” non alza mai la voce: questo è il suo pregio e il suo limite. Il modo più onesto per riuscire a proporre un disco con troppo poco materiale proprio.