Bill Frisell The intercontinentals
2003 - NONESUCH RECORDS
In effetti “The Intercontinentals” è un disco più aperto e variegato, nei suoni come negli stili, ma mantiene lo sguardo e l’impostazione tipici di Frisell: un approccio spirituale che permette ad ogni singola nota di risuonare in tutte le sue qualità suggestive ed evocative.
Questa volta i compagni di lavoro, ma sarebbe meglio dire d’esperienza, perché tale è la musica di Frisell, sono Greg Leisz alla chitarra, Jenny Scheinman al violino e, soprattutto, Sidiki Camara, percussionista del Mali, Vinicius Cantuaria, chitarrista brasiliano, e Christos Govetas, musicista greco. Sono le voci di questi ultimi tre che portano nuovi colori e distanze alle composizioni, anche se poi la materia è affrontata senza alcuna distinzione: il blues viene suonato come fosse un canto balcanico o come se l’Americana fosse parte delle tradizioni dell’Africa e del Sudamerica.
La compenetrazione tra i musicisti è tale che il disco arriva a ribadire l’idea che la musica ha origine da un unico luogo, comune a tutti gli stili e a tutti i generi.
Così “Boubacar” parte come un folk dal passo grave per arrivare a toccare l’Africa più densa con le percussioni di Camara, mentre “Good Old People” è costruita a direzioni invertite partendo con dei giri africani e facendosi poi sfiorare dalla steel di Leisz e dal violino della Scheinman.
Ogni variazione è eseguita con una grazia interiorizzata a lungo, quasi fosse frutto di una meditazione ad ampio raggio. Uno scuro ritmo folk-blues viene carezzato dall’oud e dal violino fino a rendere “For Christos” un gioiello sinfonico che riposa all’ombra della musica classica più forbita. Altrove le arie africane delle percussioni e della voce di Camara riportano alla mente “Talkin’ Timbuctu” e Ry Cooder, altro chitarrista aperto quanto Frisell.
Per “The intercontinentals” Frisell non è partito da una ricerca concettuale, ma ha lasciato una maggiore libertà ai musicisti, dopo averli scelti in base ad una comune visione. Per questo la strumentazione è più variegata (calabash, djembe, congas, oud, bouzouki) e numerose sono le direzioni che ogni traccia suggerisce: “Procissao” è uno swing etnico in cui il canto di Govetas indica il Sudamerica e più in là l’Oriente. L’India compare poi definitivamente in “Yala”, all’interno di un suono globale e sacro, in cui l’anima dell’Africa risale verso l’America portando con sè la voce solenne dell’Europa, gli echi dei Balcani e un sentimento di saudade (“Perritos”).
“The intercontinentals” potrebbe essere catalogato come un disco di world music, per le sue ampie latitudini, ma è molto di più di un crogiolo di suoni: Frisell e compagni muovono i loro strumenti con uno spirito che ha del monastico, toccando vertici mistici, in cui si torna a scoprire che “la musica è una”.