(Lev Tolstoj, Anna Karenina).
Ed ogni pezzo del disco solista di Andrea Appino è una famiglia disfunzionale tutta a modo suo. Ancora una volta, dopo lo splendido ed oscuro La notte dei lunghi coltelli di Karim, gli Zen Circus da soli funzionano una meraviglia (e questo fa anche ben sperare per il prossimo lavoro della band). Compagna di viaggio in questo nuovo tortuoso sentiero è la sezione ritmica de Il Teatro degli Orrori, Giulio Favero (anche produttore del disco) e Franz Valente (e come si nota in pezzi come Schizofrenia!). A loro per il tour si unirà il violino di Rodrigo D’Erasmo degli Afterhours.
Il testamento, su cui aleggia il genio di Mario Monicelli, è un lavoro tenero dilaniato e dilaniante, senza la beffarda ironia del De Andrè riecheggiato nel titolo, che strappa ogni velo del sogno che può esserci sulla famiglia, qui letteralmente vivisezionata ( troviamo dei precedenti in Figlio di puttana e Vent’anni). In essa può esserci tenerezza ma anche atrocità, crepuscolo ed aurora riuniti ne I giorni della merla.
La title track è una canzone manifesto di un bellezza lancinante. Dichiarazione d’intenti, tra rime ed assonanze, di uno spirito titanico ed ebbro di libertà che si scaglia contro “Gesù Cristo” e “suo Padre” senza cadere in una sterile blasfemia, ma molto vicina a certi tormenti ad esempio de La leggenda del Grande Inquisitore (Fedor Dostoevskij), su un tappeto di archi limpido come un cielo al mattino.
Che il lupo cattivo vegli su di te, primo singolo, porta l’oscurità anche nel suono, ribaltando luoghi comuni sulla cattiveria del lupo. Passaporto riammorbidisce le sonorità e porta una malinconia dolcissima: ogni accordo è una pacca sulla spalla ed un bacio a chi parte.
Lo Specchio dell'anima riabbraccia la potenza del suono sulfureo e liberatorio come un urlo contro un cielo stellato, un urlo in cui paranoia e realtà si confondono. Fuoco! è ritmicamente ossessiva nelle strofe e amara nel refrain, cocente ammissione di colpa di chi non è “nato per lottare”:“e tutto questo amore io non l’ho mai voluto / e tutto questo amore io non l’ho mai voluto / a tutto questo amore non ho mai creduto / a tutto questo amore io non ho mai creduto”.
La festa della liberazione, dai suoni semplici e quasi pastorali, è un moderno Sabato del villaggio, ma più irriverente e senza nemmeno la gioia dell’attesa. Questione d'orario riecheggia nelle immagini di mamma e bambino Ingannevole è il cuore più di ogni cosa di J.T. Leroy in una corsa a perdifiato per l’Italia, tra piano e chitarre. Fiume padre ricorda un po’ di più lo stile busker-rock degli Zen Circus, anche se ad Andrea va riconosciuto il grande merito di non aver fatto il disco da cantante degli Zen Circus, ma il disco di Appino, staccandosi da quanto di buono fatto con il gruppo per fare qualcosa di tutto suo (come ha fatto anche Karim ne La notte dei lunghi coltelli). Solo gli stronzi muoiono graffia timpani e anima, sincopata ed esplosiva.
I giorni della merla è la tenera storia del disgelo, dopo tanto freddo, di un cuore a cui nessuno “ha insegnato a raccontare cosa ha dentro” che impara schiudersi per una “bambina sola, mio unico gioiello”. Cruda e disperata è Tre ponti, che sembra sgorgare da un carillon rotto. Godi (adesso che puoi) sembra attualizzare e rivisitare in qualche modo il crepuscolarismo di Guido Gozzano. Schizofrenia è uno stallo alla messicana in cui qualcuno all’improvviso inizia a sparare.
Il disco si chiude con la dolceamara 1983, che racconta l’avvicendarsi tra padri e figli nel mondo e termina con pulsazioni quasi elettroniche.
Appino ha usato ben più di “dieci strofe per lasciare un bel ricordo”, e ci lascia anche una perla di una sincerità disarmante.