Che Sorrentino faccia “grande cinema”, nessuno l’ha mai messo in dubbio. Che faccia cinema tecnicamente spettacolare, con soluzioni ispirate ed innovative, anche. Che abbia sviluppato una sorta di capacità di far sì che il suo lavoro sia perfettamente riconoscibile…beh, altra certezza consolidata. Ma poi viene un giorno in cui il maestro fa una sorta di operazione introspettiva, una specie di analisi che lo porta a fare qualcosa che, a bene vedere, è diverso da tutto ciò che ha fatto prima. Il momento è venuto: a 51 anni Paolo ha deciso di raccontare la parte più personale e intima della sua giovinezza a Napoli. Già, la città che a lui viene sempre associata, in realtà non è mai stata presente nei suoi racconti, dislocati invece in varie parti d’Italia e del Mondo. E per raccontare questa sua giovinezza, cosa decide di fare? Sceglie l’imprevedibile, decidendo di “spogliare” il suo stile, di renderlo più sobrio, in un’operazione a servizio di questa ricerca interiore. Così spiazza -in positivo-, se prima della presentazione e del successo a Venezia ci avessero detto di immaginare un film di Sorrentino ambientato a Napoli, avremmo pensato a carrellate di telecamere, immagini surreali in mezzo ai vicoli così famosi, campi lunghi e via dicendo, un’opera decisamente barocca. Ma lui ha fatto proprio il contrario, concentrandosi sulla storia che, alla fine, la fa da padrona. Storia ma anche e soprattutto i personaggi: a partire dal protagonista, il giovane Filippo Scotti, credibile e necessario in quel ruolo tanto naturale ma difficile dell’alter ego di Sorrentino, per arrivare ai genitori, il solito Servillo, che non necessita neanche tante attenzioni, tanto è bravo e perfetto, e una sorprendente ed emozionante Teresa Saponangelo nel ruolo della madre, la migliore interpretazione del film. Ma anche i ruoli di contorno ma fondamentali, come spesso accade nel film del regista partenopeo: una Luisa Ranieri tanto esagerata quanto brava, ma anche il fratello del protagonista, e le varie comparsate (le uniche che si concedono al caricaturale). Tutti personaggi che ti rimangono dentro.
La vicenda è quella autobiografica di come il protagonista si ritrovò, a 16 anni, ad affrontare il decesso improvviso dei genitori, i suoi primi anni da adolescente, le sue prime volte (il sesso, le amicizie, ma anche la trasferta per vedere il suo amato Maradona), fino all’illuminazione verso la Settima Arte. La storia è tanto vera e tanto cruda, anche se, come ogni narrazione autobiografica che si rispetti, questa è in parte mediata irrimediabilmente dai ricordi, che tutto trasformano, e in parte stravolta dalla necessità di distorcere alcuni passaggi, per il bene dello spettacolo. Questa è la vita di Sorrentino, in cui la sorella quasi non trova mai spazio, sempre chiusa dietro quella porta del bagno, e in cui riesce anche a dare spazio alla poesia, spesso nascosta dietro a un fischio, un ammiccamento, con cui due innamorati si riconoscevano. Questi passaggi, piccole scene, sono di una delicatezza infinita.
E’ un film che si deposita, e che, in un certo senso, va avanti a lavorare, a insinuarsi.
Che dire, Sorrentino? Cosa hai fatto? Ti sei spogliato per noi! Hai aggiunto grazia ai tuoi racconti, senza trascurare la magia del cinema, la voglia di stupire questa volta si autoalimenta dai tuoi sentimenti, e fai un ulteriore passo di avvicinamento verso l’Olimpo della storia del cinema italiano e non solo…