Songs For Ulan You must stay out
2006 - Stoutmusic / Audioglobe
Questa prima prova sulla lunga distanza (36 minuti, neanche tanto) palpita ancora delle scorie folk del lavoro precedente, ma è completata da una maggior definizione nelle interpretazioni. “You must stay out” suona più maturo senza perdere la scorbutica estemporaneità che è caratteristica del suo autore: De Cristofaro è uno che non fa né sconti né concessioni, prima di tutto a sé stesso, come ben suggerisce il ghigno con cui si è autoritratto in copertina.
Al suo fianco, oltre ai suoi musicisti e a quel Cesare Basile con cui condivide più di un’affinità, c’è stavolta anche Hugo Race: troviamo significativo che i dischi di questi tre autori, più quello di John Parish, escano in questo inizio di 2006, a conferma di un terreno comune in cui è possibile scavare.
Questi undici pezzi giacciono su un folk-blues attraversato dai fantasmi di Basile e dagli echi desertici di Race, ma soprattutto dalla voce di De Cristofaro che si è fatta marcata ed ispida, certo non profonda come quella di un Mark Lanegan ma in grado comunque di graffiare.
Per quanto indipendente, De Cristofaro non gioca a fare l’alternativo e non si adagia sul fascino oscuro delle canzoni neanche nei passaggi più scarni eseguiti con la sola chitarra acustica: trova sempre appoggi forti e ben saldi come dimostrano la cover di “Secret fires” (Gun Club) e una “No more, no less”, ispirata da un testo di Bukowski.
È un disco amaro costruito con pochi strumenti: le note parche della title-track sono un invito ambiguo, non per tutti. “The counting song” e “Little” girano asciutte, quasi tribali, spoglie di qualunque orpello con qualche sferzata di chitarra elettrica che per questo sembra lasciare ancora di più il segno.
Le canzoni sono brevi, ma hanno dentro una voce che raspa per aggrapparsi, per rimanere attaccata con un banjo, con un piano o con un organetto: alcuni pezzi sono stoppati e rallentati, quasi trattenuti dalla chitarra che ne preserva l’integrità come nella splendida “Somebody else do it” (“We don’t scream / we don’t give a shit / somebody else do it”) o nel blues spiritato di “On my hand”. Sono sempre i fantasmi del folk ad insinuare qualche barlume di romanticismo in “Julie” o il filo di una favola perduta nella conclusiva “3 submarines”.
“You must stay out” ha una forza segreta, con cui prende una posizione ferma e non lascia dubbi: il suo “stare fuori” è una scelta cosciente mirata ad una vera condizione artistica, essenziale e definita.