Songs For Ulan Songs for ulan
2004 - Stoutmusic / Audioglobe
Ma per ora i Songs for Ulan sono qua, questa è l’unica certezza, anche se non si sa nemmeno per quanto, vista la fragile temporaneità che il disco comunica con la sua ventina di minuti.
Non dicono molto i nomi degli autori, da quel Pietro De Cristofaro, cantautore napoletano, ai suoi collaboratori, Francesco Cantone, Tazio Iacobacci e Pippo Baresi, tutti musicisti che provengono dal fondo della scena indipendente. Dice qualcosa di più la presenza di Cesare Basile, uno spirito che si materializza in fase di regia, di produzione e di arrangiamento (chitarra, basso, banjo, diamonica e spazzole).
Ciò che è detto non basta comunque a svelare il mistero, perché “Songs for Ulan” non suona come un disco di Cesare Basile: non ne ha l’integrità spigolosa e orticante, è qualcosa di più intimo ed eterogeneo, emotivamente instabile.
A creare questo spleen malinconico contribuiscono una strumentazione parca, volutamente barcollante anche negli episodi più elettrici: le chitarre sono appena sfiorate, mentre alla batteria è spesso preferito uno strusciare di spazzole.
Ne derivano canzoni che danno l’impressione di un’alba svogliata, di una coscienza di cui si sarebbe volentieri fatto a meno: tornano alla memoria ora le amarezze disperate di Mark Lanegan (“No stains”) ora le ulcerazioni di Jon Spencer (“Now I know”) ora i blues infetti di Hugo Race.
Le canzoni di Pietro De Cristofaro suonano però estremamente personali, come solo una dedica può essere: la dolcezza che ne esce è incompleta, troppo fugace e precaria per essere gustata. Gli squarci di “Life was no yet” e “All that she said was: no” sono imperfetti, ma proprio per questo lasciano segni sulla pelle, la pizzicano e la rompono provocandone un dolore piacevole.
Terminato l’ascolto, sembra che non resti nulla dell’album: le ferite si rimarginano, dolore e dolcezza scompaiono, quasi con un senso di liberazione, ma, non appena si distoglie l’attenzione dal lettore, ci si rende conto di come le canzoni siano rimaste attaccatte ad un livello inconscio.
Sarà per colpa di un canto dolente e mal cauterizzato o per la presenza di arrangiamenti appena percettibili (la slide di “Life was no yet”, la diamonica e il banjo di “They’re crying for nothing”, l’armonica di “It doesn’t really matter”), ma in questo disco c’è qualcosa che sfugge alla logica, che obbliga a desiderarlo e a possederlo ora, ripetutamente, senza attendere che siano la memoria o il tempo a venire a dargli spazio.