Nicolò Carnesi Ho una galassia nell`armadio
2014 - Malintenti/Edel
#Nicolò Carnesi#Italiana#Pop #Songwriting #Indie-pop #Rock #Synth-pop
Polistrumentista del tutto autosufficiente, ma anche calamita di collaborazioni eccellenti (in questo disco suonano anche Roberto Angelini, Rodrigo D’Erasmo, Antonio Di Martino e i Selton, oltre al produttore Tommaso Colliva), il musicista palermitano ha confezionato un disco che riesce nel prodigio di apparire insieme fresco e pensoso, tra melodie perfette, ritmiche frizzanti, a volte con groove di basso new-wave (Il disegno), e squarci di folk rarefatto (v. le pause acustiche che si spalancano ne La grande fuga di Alberto o la delicata e ariosa Numeri, con il piano di Angelo Trabace, qui e altrove però a tratti un po’ eccessivamente “stilizzato”).
Synth-pop, indie-pop agrodolce e cantautorato sono solo alcuni degli ingredienti di un disco in cui Carnesi mostra ormai di possedere una sua ben definita personalità; se pure qualche confronto può balenare e farsi strada nella mente dell’ascoltatore, si può osservare che Nicolò appare meno cerebrale degli ultimi Amor Fou in salsa electro, più lieve, ma anche per certi versi meno discontinuo di Colapesce, più sognante e musicalmente eclettico di Brunori (artisti comunque tutti parimenti validi e interessanti).
L’intima galassia da esplorare del titolo sembra un cosmo al di là delle frasi fatte, del prevedibile, del calcolabile aritmetico e fisico, oltre il razionale e il rassicurante, perché “se c’è una ragione / la trovi in fondo al mare / e non nei manifesti”, nel fluttuare indefinito e libero della “materia antigravitazionale” (La grande fuga di Alberto). La via d’uscita è al di là dell’obbligo noioso del divertimento (Gli eroi non escono il sabato), è nell’ironia amara, eppure leggera, sulle scelte masochiste (“ma sì, facciamoci del male ancora un po’/ma sì, restiamo incollati a tutte quelle cose che non abbiamo più”), nell’accettazione di fragilità e incoerenze, del carattere inevitabile delle illusioni (che meritano almeno “un’ora d’aria”, L’ultima fermata), dell’alternanza di speranza e sconforto, vittoria e sconfitta, ma anche nello slancio ottimistico, per quanto imperfetto, con cui provare a disegnare una realtà altra o a cancellare il freddo e gli errori (Il disegno).
D’altronde, anche se le distanze sconfessano i sogni e rafforzano “la logica della fine” (Cassandra), a volte l’amore si può trattenere e congelare “per un attimo ancora” sul fare del giorno (Gli eroi non escono il sabato); la speranza che esista da qualche parte “un universo dove non si muore mai”, “un amore che uccide gli inverni”, “un universo dove non si odia mai” è forse solo una consapevole utopia su cui fantasticare, ma “ci resta una stella lontana”, “quel punto lontano da guardare”, ci resta correre forte “verso mondi indefiniti” (La rotazione).
Un disco che fa bene, come una carezza sulle ferite del quotidiano, come un sorriso irrazionale e obliquo da scagliare come un’arma che pure neutralizzi naufragi e disfattismi, come un’alchimia preziosa di equilibri e abbandoni (al languore della malinconia e alla fede laica in possibilità oniriche), di ricerca e pop.