Garland Jeffreys I’m alive
2006 - Universal
Non credo sia giusto allora presentare questa raccolta come l’ennesimo ritorno di un musicista scomparso, perché in trentacinque anni di carriera Garland Jeffreys si è distinto dalla massa e anche da quel mondo rock fattosi sempre più ristretto.
Più per una questione di scelte che di sangue (portoricano, cherokee e newyorchese), lui si è costruito un approccio alla musica estremamente vitale: venendo dalla strada, ha imparato a tendere le orecchie assorbendo un suono duro e puro.
Basta ascoltare una qualunque delle tracce di “I’m alive” per cogliere un sound da fare invidia: anche i brani rimasterizzati dagli anni ’70 suonano a dir poco freschi ed energici. Il pregio maggiore sta nel focalizzare sul risultato complessivo e non sui singoli suoni come si fa oggi: le canzoni più rock come quelle più meticce sono centrate e godono di un’anima che sale ad ogni battuta. A questo contribuisce in modo fondamentale la voce di Garland, limpida e carica di soul come un tempo.
Giusto intitolare il cd “I’m alive” perché Jeffreys dimostra di essere più vivo che mai: oltre ai tre inediti qua presentati, si dice abbia pronti un paio di dischi previsti per il prossimo autunno.
Da notare anche i musicisti presenti in studio: si va da Dr. John a James Taylor fino a gente come Steve Jordan nelle registrazioni più recenti. E il bello è che le interpretazioni di Jeffreys sono tanto intense da dare omogeneità al tutto, tenendo ben lontano il pensiero che si possa trattare di esecuzioni di illustri sessionman.
Il suo canto e la sua visione hanno una fierezza che viene dalla cultura nera: per questo il suo modo di suonare il reggae ha una forza che dovrebbe essere d’esempio ai tanti produttori di r&b, dub, hip-hop e (nu)soul odierni. Garland Jeffreys non contamina, ma coagula, usando la forza di un rock stradaiolo, che tra chitarre e organo sembra ancora risuonare tra i vicoli di New York.
Anche i pezzi più lunghi, come per esempio la piccola epopea sudamericana di “Spanish town”, sono una boccata d’ossigeno che non perde groove e immediatezza. La leggerezza di “Return of the matador” è impregnata di umori latini e di una qualità che sfiora Van Morrison così come “35 Millimeter Dreams” e “96 Tears” hanno il tiro dei primi Graham Parker ed Elvis Costello. La presenza di Roy Bittan e Danny Federici della E Street Band è ulteriore prova di un’affinità rock che non scompare nemmeno nelle canzoni degli anni ’80, mentre Vernon Reid conferma il tasso di quella che è una vera black music moderna (andatevi a risentire “Don’t call me buckwheat” del 1992).
Insomma, se non conoscete Garland Jeffreys, questa è l’occasione per recuperare ciò che voi avete perduto. Già, perché a sentire queste canzoni, lui non si è mai smarrito.