14 STEPS  TO HARLEM <small></small>
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Garland Jeffreys 14 STEPS TO HARLEM

2017 - LUNA PARK

03/04/2017 di Aldo Pedron

#Garland Jeffreys#Rock Internazionale#Rock

Nell’album del 2011 intitolato The King of in Between, nel brano iniziale Coney Island Winter, Garland Jeffreys racconta e parla di sé stesso come da bambino percorresse da solo 22 Stops to the city (22 stazioni della metropolitana di New York all’andata e 22 al ritorno).  Ora nel nuovo album il titolo emblematico diventa 14 Steps to Harlem ovvero 14 gradini del treno verso Harlem dove il padre di Garland ad Harlem si ammazzava di lavoro quotidianamente e lui talvolta, accompagnandolo ancora assai giovane, svolgesse alcuni lavoretti part time.

Nessuno come lui riesce a raccontare e descrivere: fatti, episodi, angosce, paure e gioie di una difficile gioventù. Qui si parla di vita vera, la sua,  sofferta ma assai dignitosa.

Le gesta, gli affascinanti racconti, i dettagli, le storie e le notizie di questo camaleontico personaggio forse non sono conosciuti  dai più, per questo raccontiamo  i fatti salienti.

Garland nativo di Sheepshead Bay (Brooklyn orientale, New York, il 29 Giugno del 1943) e di discendenze afro-americane e portoricane, alla fine degli anni ’50 e primi ‘60 cresce cercando di emulare  il  gruppo vocale  doo-wop di Frankie Lymon and the Teenagers.

Incide brani rock e rock & roll provocatori e personali fin dal lontano 1969, anno in cui registra il suo primo disco Grinder's Switch Featuring Garland Jeffreys edito per la Vanguard Records nel 1970.

Ma Jeffreys, già nei 1966, suonava da solo nei piccoli club di Manhattan o alla testa di piccole band e così sono passati oltre 50 anni on the road e soltanto 13 album ufficiali più qualche raccolta o collaborazione e tra questi segnaliamo alcune gemme che luccicano per incanto come l’omonimo Garland Jeffreys (1973), Ghost writer (1977) per la A & M records con piccoli capolavori come il furtivo reggae I may not be your kind, New York Skyline, l’inno Wild in the streets e Spanish town, One Eyed Jack (1978) sempre la A & M records, American boy &girl (1979) con la splendida e reggata Matador, Escape artist (1981) con ospiti  del calibro di David Johansen, Danny Federici, Roy Bittan, Adrian Below, Linton Kwesi Johnson, i fratelli Michael e Randy Brecker ai fiati e i Rumour. Ed ancora Don’t call me Buckwheat (1991), un album contro l’intolleranza razziale in cui lo spunto per farne un intero disco viene dall’epiteto buckwheat (in italiano letteralmente grano saraceno) rivolto a chi come lui, mulatto, dalla pelle troppo chiara per essere accettato dai neri e troppo scuro per essere accettato dai bianchi, ricevette quest’offesa sugli spalti durante una partita di baseball dei New York Mets allo Shea Stadium di New York nel 1990, come se la gradazione cromatica della pelle potesse rappresentare una scala di valori.

Questo ennesimo episodio gli fece comprendere che il razzismo ha radici piuttosto profonde e tuttora esiste se non addirittura si sta riaffermando. Per finire è corretto segnalare due perle del nuovo millennio: The King of in between (2011) e Truth Serum (2013).

La sua Wild in the streets ripresa con successo dai Circle Jerks e titolo dell’omonimo secondo album dei Circle Jerks, hardcore punk band californiana, pubblicato nel 1982 dalla Epitaph Records, è diventata un emblema newyorkese, della scena punk e dei pattinatori (skater). Ascoltatevi El Salvador dal suo album Guts for love del 1983 che è a dir poco splendida e assai significativa.

Una carriera lungimirante in cui  si è guadagnato il paradiso ed anche la stima e il rispetto di numerosi artisti, colleghi ed amici, che hanno inciso o condiviso il palco con lui come Bruce Springsteen, James Maddock, Dr. John, David Bromberg, John Cale, Lou Reed, The E. Street band, Sonny Rollins, Michael e Randy Brecker, The Rumour, U2, Sly & Robbie (giamaicani), David Sanborn, Linton Kwesi Johnson, Levon Helm, Willie Nile, Joe Ely, Alejandro Escovedo, Phoebe Snow, James Taylor, Larry Campbell e molti altri ancora.

L’orgoglio razziale, la fierezza e il carattere dei neri, dei nerissimi e dei mezzi neri come lui la si sente in alcune sue meravigliose canzoni quali: Color line, Racial repertoire, Spanish blood, Spanish town e Hail Hail rock ‘n’ roll, quest’ultima (dall’album Don’t call me Buckwheat del 1991) con Vernon Reid dei Living Colour alla chitarra in cui recita la sua versione del rock and roll che viene dal R & B e dal soul e prima vengono Little Richard, Chuck Berry, Bo Diddley, Fats Domino e poi i bianchi Elvis Presley, Gene Vincent, Buddy Holly e Jerry Lee Lewis.

Nel 1998 un profumo di Giorgio Armani prende il nome da una sua canzone Sexuality ed egli è ospite d’onore (presente anche Robert De Niro) alla Place Saint-Sulpice l’11 Marzo 1998 al Paris show, The Fashion show Fall Winter 1998/1999 introducing the New Emporio Armani Fragrances for men and women.

Di lui un giorno Bob Marley disse: Garland Jeffreys suona e canta il miglior reggae d’America.

Un cantautore scomodo, sottostimato, poliedrico, vissuto tra le frustrazioni dei city kids,  penalizzato dalle sue intenzioni poco governative, troppo nero e polemico per invadere senza danni il terreno dei bianchi. Le sue canzoni spesso parlano dei bambini del ghetto vissuti tra pregiudizi razziali ed il boulevard del crimine. El Salvador e American Backslide invece, dove affronta la violenza politica ad esempio, per la loro spontaneità e durezza confermano il suo comportamento ed il suo stile tagliente, chiari ed evidenti attacchi all’amministrazione Reagan mentre I was afraid of Malcolm, l’ennesimo riferimento al razzismo quotidiano, esplicito e strisciante.  

Gli appartiene pure una grande dote, quella di saper tradurre in liriche e rendere poetiche metafore e  visioni ricche di implicazioni letterarie: arte, letteratura, cinema e il sapore dei quartieri poveri. 

Garland Jeffreys resterà per sempre un’icona della lotta statunitense al razzismo e punto di sintesi tra la cultura afro-americana e la poetica metropolitana di New York. Alcuni suoi brani sono diventati autentici inni e le sue canzoni di denuncia sociale rappresentano il ponte tra la musica reggae di Bob Marley, il rock'n'roll urbano di Lou Reed e del miglior cantautorato newyorkese quando tra la fine degli anni ’70 e ’80, fu un autentico paladino e protagonista della scena di Manhattan quando alla ribalta insieme a lui in contemporanea c’erano Bruce Springsteen, Willy De Ville, David Johansen, Lou Reed, Patti Smith, Willie Nile, Elliott Murphy ed altri ancora.

Vincitore in Italia del Premio Piero Ciampi Città di Livorno nel 2007 e del Premio Luigi Tenco a Sanremo (Ottobre 2013), presente come performer nel film/documentario di Wim Wenders The soul of a man (2003) ed inserito nella Long Island Hall of Fame nel 2016 a New York per citare soltanto alcuni dei suoi riconoscimenti, Garland Jeffreys resta un grande artista la cui musica è una ricca miscela speziata di molte sfumature e densa di sonorità.

14 Steps to Harlem dunque è il terzo album in 6 anni. Il disco (disponibile sia in CD che in vinile) è co-prodotto dall’autore, insieme al songwriter inglese ed amico trapiantato a New York, James Maddock.

La band che accompagna Garland Jeffreys è composta essenzialmente da Mark Bosch alla chitarra, Brian Stanley al basso e Tom Curiano alla batteria con la partecipazione straordinaria di Brian Mitchell (tastiere e fisarmonica), Ben Stivers (tastiere ) e l’album tocca alcuni momenti salienti con un bellissimo duetto con la figlia Savannah Jeffreys (piano e voce) in Time goes away e si conclude con un radiante assolo di violino di Laurie Anderson (sposata con Lou Reed dal 2008 fino alla sua morte nel 2013) in Luna Park Love theme.

14 Steps to Harlem (… daddy went to Harlem to work each day…) ancora una volta ci consegna un Garland Jeffreys in perfetta forma sotto ogni aspetto: fisico e mentale, testi impegnati sul sociale, liriche taglienti, immediate, colte e davvero emozionanti. Il suo stile musicale: rock, reggae, blues, doo-wop e soul è completato da una voce squillante, inarrivabile, fenomenale, capace di cantare praticamente qualsiasi tipo di stile canoro. Egli può essere definito un esploratore, i cui forti legami viaggiano fortemente tra rock, poesia, ribellione e discriminazioni razziali.

14 Steps to Harlem è ancora una volta un omaggio alla sua famiglia, ai suoi genitori che lo hanno educato e lo hanno mandato alla Syracuse University (stessa università di Felix Cavaliere degli Young Rascals, Mike Esposito dei Blues Magoos e compagno di classe di Lou Reed nel periodo 1961-1965). L’Università e i genitori gli permettono inoltre di studiare per circa 1 anno storia dell’arte a Fiesole e Firenze nel 1963 ed infatti egli parla ancora oggi l’italiano più che discretamente. I duri sacrifici dei suoi e il quotidiano lavoro del padre che ogni giorno andava da Sheepshead Bay ad Harlem per una misera paga sono il suo costante ricordo.

12 brani pieni di speranza, fierezza, musica sublime e canto celestiale.

In Reggae on Broadway cita Joe Strummer e i Clash, Spanish heart é con James Maddock alla chitarra elettrica, acustica e al mandolino e Steve Goulding (ex Rumour di Graham Parker dal 1975 al 1981) alla batteria.

10 brani da lui composti e due sole cover, Help, un omaggio a John Lennon da lui personalmente conosciuto ai Record Plant di New York e Waiting for the man dal primo album dei Velvet Underground & Nico del 1967 e scritta dall’amico Lou Reed (I’m waiting for the man dove in realtà si parla di uno studentello bianco che si reca in un quartiere nero di Harlem a comprare dell’eroina dal suo spacciatore di fiducia e che lo fa sempre aspettare).

L’iniziale When you call my name é un rock incalzante mentre Schoolyard blues con il ritrovato Alan Freedman alla chitarra elettrica (suona con lui dal 1973) e Brian Mitchell all’armonica é uno shuffle e sembra sia stata scritta per i Rolling Stones di Blue and Lonesome (Mick Jagger e Garland per certi versi hanno una voce simile).

14 Steps to Harlem è una ballata incantevole punteggiata da pianoforte, organo hammond ed un azzeccato coro (James Maddock e Cindy Mizelle). Un perfetto e commovente flashback che riporta Garland alla sua adolescenza, a quando già verso i 10 anni ricordava e vedeva suo padre( soprattutto negli anni ’50) lavorare duro ad Harlem uscendo di casa al mattino prestissimo per guadagnare un dollaro prendendo il treno sulla 125° strada e sua madre che sgobbava in un zuccherificio sempre ad Harlem chiamato Domino Sugar.

Time Goes Away è splendida con la lap steel guitar di James Maddock e Jeffreys in un singolare duetto con la figlia Savannah al controcanto, da pelle d’oca.

Spanish heart é gioviale, orecchiabile e ti prende subito con il giusto piglio dell’autore con tanto di mandolino di James Maddock e la fisarmonica di Brian Mitchell in punta di piedi ancora una volta.

Bellissima la versione di Help, assai lenta e misurata, a creare grande atmosfera ed un sicuro effetto, con una fisarmonica solamente accennata ed una grande interpretazione vocale di Garland. Help era già stata da lui interpretata dal vivo il 9 Ottobre 2010 in occasione del tributo a John Lennon per il suo 70° compleanno alla Society for Ethical Culture di New York.

Colored boy said é un rap gentile alla Jeffreys (I got a president who loooks like me, colored boy said).

L’album viene pubblicato ufficialmente il 28 Aprile 2017, non fatevelo assolutamente sfuggire!

 

Garland Jeffreys sarà in Italia live per una sola data (al momento):

 
Domenica 25 giugno

Al Retrò di Vicenza  

 

 

Track List

  • When you Call my Name
  • Schoolyard Blues
  • 14 Steps to Harlem
  • Venus
  • Reggae on Broadway
  • Time Goes Away
  • Spanish Heart
  • I’m a Dreamer
  • Waiting For the Man (composta da Lou Reed per i Velvet Underground nel 1967)
  • Help (composta da John Lennon e Paul Mc Cartney ed incisa dai Beatles nel 1965)
  • Colored Boy Said
  • Luna Park Love Theme

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