"Il muro di Berlino non cadde il 9 novembre dell'89 ma il primo luglio del '90"


01/07/2017 - News di Luigi Lusenti

"Il muro di Berlinonon non cadde il 9 novembre dell'89, ma il primo luglio del '90"

dall'introduzione al mio prossimo libro "L'ultima Guerra Fredda"

 

La vecchia Europa passò il testimone alla nuova Europa nell’estate del 1990, l’estate dei mondiali di calcio in Italia. In una notte di fine giugno si svuotarono i varchi di frontiera fra le due Germanie e le due Berlino. Qualche giorno prima era stata votata l’unione economica e monetaria tra la Bundesrepublik Deutschland e la Deutsche Demokratische Republik. I marchi dell’ovest erano già all’est, trasportati da decine di camion blindati. Venticinque miliardi di DMark (il doppio dei marchi dell’est in circolazione) vennero stivati nei locali della Reichsbank, il cui edificio, per quarant’anni, aveva ospitato il comitato centrale della Sed. Gli Ostmark, invece, furono impacchettati e mandati al macero in grandi e profonde buche. Tutta l’operazione sotto lo sguardo attento della Bundesbank.

La Repubblica Federale e la Repubblica Democratica si unificarono definitivamente il 3 di ottobre del ‘90, data che sostituì, come festa nazionale, quella del 17 di giugno. Nella realtà la Germania Federale si ammise i 5 land della Repubblica Democratica. Infatti, grazie all’articolo 23 del Grundgesetz, la Costituzione tedesca, i land di Brandeburgo, Meclenburgo-Pomerania Occidentale, Sassonia, Sassonia-Anhalt e Turingia aderirono semplicemente alla RFT facendo venir meno la DDR ed evitando di dover riscrivere un nuovo patto costituzionale. La prima domenica di luglio del novanta, invece, a uno dei valichi sulla linea di demarcazione i due ministri degli interni, Wolfgang Schaeuble per l’ovest e Peter Michael Diestel per l’est, firmarono l' accordo bilaterale sull' abolizione dei controlli doganali. Nel frattempo la tv mandava spezzoni di 3 minuti in cui si spiegava, tramite un personaggio denominato Kluge Ludwig, il furbo Ludwig, l’economia di mercato a 20 milioni di tedeschi abituati all’economia pianificata, all’economia dell’indispensabile, e a volte anche meno.

 

Io, sabato 30 giugno, fui uno degli ultimi a passare il varco del Check Point Charlie. Erano le cinque di un caldo pomeriggio estivo e la sentinella appose con l’abituale attenzione un timbro che, di li a poche ore, sarebbe diventato un reperto da museo. Quel visto, il martello e il compasso circondati dalle spighe del grano, lo conservo ancora, assieme ai timbri della Polonia, della Cecoslovacchia, dell’Ungheria, della Jugoslavia, fra le pagine del passaporto di allora. Come conservo tuttora, ma solo nella mia memoria, il ricordo della mattina dopo quando, prima di partire per Helsinki, tornai a valicare il passaggio di frontiera appena sopra la Marienneplatz. A Helsinki andavo per partecipare alla European Nuclear Disamament.

Che cosa sia l’END è parte integrante di questa storia e lo spiegherò nelle prossime pagine. Ma se qualcuno avesse fretta su Wikipedia c’è una voce in inglese, incompleta e con qualche errore, che si può consultare rapidamente all’indirizzo: http://en.wikipedia.org/wiki/European_Nuclear_Disarmament.

Torniamo alla Marienneplatz. La piazza a quel tempo era abbandonata dalle autorità al suo destino, cioè a rifugio degli ultimi “alternativi” d’Europa. Vivevano in vecchi carrozzoni verdi, gli stessi usati negli anni trenta dagli operai berlinesi per risistemare le strade. Vivevano miseramente, sconfitti dalla loro stessa utopia, dall’LSD e dalle tante anfetamine e allucinogeni conosciuti. Si aggiravano storditi, estranei ai fatti del mondo. In quel caso fatti lontani solo poche centinaia di metri, lo spazio necessario per arrivare al valico di Heinrich-Heine-Strasse. Per questo “check” transitavano tutte le merci e la posta fra le due Berlino. Lo stesso “check” che vantava fughe rocambolesche. Il 18 aprile del 1962 un autocarro sfondò le sbarre. Uno dei tre uomini, Klaus Brüske autista del camion, morì colpito dai vopo, mentre i compagni riuscirono seppur gravemente feriti a scappare dalla DDR. Gli sbarramenti protettivi vennero ulteriormente rafforzati. Nonostante ciò, nel 1965, il giorno di Santo Stefano, due uomini e due donne, a bordo di un auto ripeterono l’impresa. Purtroppo la fuga fallì, il ventisettenne Heinz Schöneberger fu ucciso e i suoi compagni di sventura arrestati.

Sotto il valico correva la metropolitana. Con la costruzione del muro alcune linee della sotterranea trovarono parte del loro percorso all’est. Le autorità tedesco comuniste chiusero le stazioni di superficie e i treni, provenienti dall’ovest e diretti all’ovest, vi transitavano a passo d’uomo guardati a vista dalle banchine da uomini armati con i cani lupo al guinzaglio.

Questo e altro raccontavano le garitte deserte, gli uffici abbandonati, le torrette vuote e disarmate che vidi quella domenica mattina del primo di luglio del 1990. Per molti uomini, me compreso, nati sotto il nazifascismo o durante la guerra o appena dopo, gli avvenimenti dell’89/90 ponevano la questione della fine della storia, convinti, come ricorda Hobsbawm ne “Il secolo breve”, che lo scontro tra capitalismo e socialismo, il mondo diviso in blocchi, la cortina di ferro fossero l’essenza della vicenda umana quando, proprio nella lunghissima presenza dell’uomo sulla terra, quello scontro copre poco più di un centinaio di anni. Ma ognuno vive i drammi e le passioni del suo tempo. Al massimo, a quelle passate, dedica lo studio, la ricerca, la curiosità.

 

“Se si potessero radiografare le anime e le menti delle persone, come si può fare con i corpi, le antiche ferite sarebbero visibili e i traumi concreti oggetti di studio”, così mi diceva Wolf Biermann in una intervista che gli feci al bar Giamaica di Milano a un anno esatto dai giorni della caduta del muro. Mi tornò in mente l’idea che molti, soprattutto intellettuali, coltivavano dopo il 9 novembre dell’89: una DDR riformata dall’interno, purificata dai peccati del regime comunista, che potesse ritornare alla purezza del pensiero di Marx, cantata tante volte dallo stesso Biermann e narrata da Christa Wolf . Una Germania dell’Est magari federata a quella dell’Ovest, ma indipendente e libera di scegliere la propria strada e il proprio futuro. Firmarono anche un appello gli intellettuali, mentre la DDR veniva giù un pezzo dopo l’altro. Si illudevano che, una volta deposto Honecker, il paese fosse riformabile dall’interno. Ma, come fece notare qualche attento osservatore, Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia potevano rimanere stati autonomi anche se il regime comunista cadeva, la Germania dell’Est, invece, senza il comunismo non aveva ragione di esistere.

Dopotutto la genesi stessa dello stato socialista tedesco, uno stato che nessuno aveva mai proclamato, lo comprovava bene. La DDR era sempre rimasta la zona occupata dall’Armata Rossa. E più agli interessi sovietici che a quelli nazionali pareva interessata. Nella Germania dell’Est si manifestò appieno il carattere etico – assolutistico dello stato socialista. Più che nelle sterminate repubbliche dell’Urss, o nelle arcaiche Bulgaria o Romania, o nelle inquiete e mitteleuropee Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria. La potente macchina della propaganda di regime, autoritaria e dispotica, fu l’unica identità in cui riconoscersi oltre a una vaga idea di miglioramento sociale incapace però di costituire un vero e proprio genius loci e pagata a caro prezzo a partire da quel 17 giungo del 1953 quando il “tempestivo” intervento dei carri armati sovietici soffocò nel sangue la prima rivolta dei lavoratori berlinesi. Soffocata proprio sulla "Stallinallee", voluta dal dittatore georgiano per glorificare il suo potere. La stessa Angela Merkel intervistata da “La Stampa” per i 20 anni della caduta del muro affermava che la: “Ddr era un “Unrechtsstaat” (stato sbagliato n.d.a), in quanto non era fondata sul diritto. Non c’era libertà di espressione, non c’era libertà di voto”.

Anni dopo, era il 1995, nel romanzo “Ein weites Feld", tradotto in Italia nel ’98, Günter Grass fa dire a Theo Wuttke, uno dei due personaggi principali, fattorino settantenne della Germania orientale specializzato in conferenze su Theodor Fontane: “In Deutschland hat die Einheit immer die Demokratie versaut”. La Germania è una democrazia sporca. E ancora nel 2009, a vent’anni dalla caduta del muro o dalla riunificazione, nel suo diario “In viaggio dalla Germania alla Germania”, il premio Nobel attaccherà ferocemente “Treuhandanstalt”, l’organismo creato dal governo di Helmut Kohl per privatizzare le ottomila aziende orientali accusandolo addirittura di essere una agenzia criminale. La sua tesi ricalca quelle della Wolf e di Biermann, seppur indirettamente: ci poteva essere un’altra strada che non l’annessione dell’DDR da parte della RFT. Grass usa volutamente il termine “annessione” per ricordare una pagina nera della storia tedesca, l’annessione dell’Austria alla Germania nazista.

Ma quello che non capirono allora gli intellettuali e Grass, e chi si attaccò all’ultima illusione possibile mentre tutto si sgretolava e una valanga travolgeva idee, speranze, progetti, è che i cittadini dell’Est, gli “Ossie” nel gergo comune, avevano già scelto il loro destino e lo dimostrarono nelle prime elezioni libere il 18 marzo del 1990.

La libertà, a lungo desiderata, era finalmente arrivata. Ma non il benessere economico. Nessuno voleva più aspettare. Ovunque riecheggiava lo slogan "se il marco non viene da noi, saremo noi ad andare dov'è il marco". L’economia era al collasso e la disoccupazione ai massimi storici. L’unificazione da possibilità divenne necessità. La CDU vinse e nominò premier Lothar de Maziére col compito preciso di accelerare i tempi dell’unificazione. La scelta del governo fu di nuovo confermata nelle elezioni comunali del 6 maggio quando rivinse ancora, con largo margine il partito del premier.

Tutto questo per spiegare perché non fu la caduta del muro di Berlino a chiudere la guerra fredda. I mesi successivi al novembre dell’89, confusi e tumultuosi, sono l’ultimo epilogo del mondo diviso, quello dove ancora trovavano spazio Kundera, Brant e Pertini; Gladio, i colonnelli greci e il maggio francese; il dissenso all’est e la contestazione all’overt; il “pensiero di Francoforte” e la scuola di “Curciola”. Ma l’89 ebbe anche una incubazione lunga, almeno un decennio. Di quel decennio, ovvero di molti fatti di quel decennio, si conosce poco e io che, per questioni professionali o politiche, ne sono stato testimone, voglio raccontarli con l’onestà e la semplicità del cronista.