Lettere dalla deportazione - La storia di Carmine Pascià
30/04/2017 - News di Luigi Lusenti
Da Lettere dalla deportazione
Testi di Luigi Lusenti - Musiche di Luca Garlaschelli
Voce narrante David Riondino
Il 5 febbraio del 1885 millecinquecento bersaglieri, guidati dal colonnello Tancredi Saletta, occuparono pacificamente il porto di Massaua in Eritrea. La decisione del governo italiano faceva seguito a quella del 1882 con la quale l'Italia si assumeva la protezione della baia da Assab con un plotone di carabinieri. Casus belli l'aggressione subita da tre esploratori italiani da parte della tribù degli Aussa: Gustavo Bianchi, Cesare Diana e Gherardo Monti.
La risoluzione italiana sollevò le proteste delle autorità del Cairo e di Costantinopoli che però rimasero inascoltate in quanto Londra e Parigi sostennero l'Italia per pure ragioni coloniali. In poche settimane il contingente venne rafforzato con altri mille uomini. E' l'inizio della politica coloniale della Roma che avrebbe rivendicato l'impero.
La ricerca di "un posto al sole" comporta anche politiche repressive nei confronti delle popolazioni locali. Una pratica diffusa fu quella della deportazione. Si pensava così di intimorire la gente e di "allontanare" gli oppositori più intransigenti all'occupazione italiana. Gli oppositori furono incarcerati in molti penitenziari del sud Italia: Gaeta, Nisida, Procida, Santo Stefano, Lecce. Il provvedimento veniva preso anche solo per semplice sospetto.
La pratica delle deportazioni si interruppe, una prima volta, nel 1893. L'opinione pubblica italiana fu così colpita in negativo che il governo ordinò il rimpatrio dei deportati. Molti, però, erano nel frattempo deceduti.
La pratica di portare in luoghi italiani particolarmente isolati i prigionieri e i sospetti di attività sovversive riprese con la guerra contro la Turchia scatenata per conquistare la Libia nel 1911. Fu la risposta feroce e violenta all'insurrezione araba di Sciara Sciat. Giolitti era stato male informato. Credeva che gli abitanti della Tripolitania e della Cirenaica vedessero con favore l'arrivo delle nostre truppe. Invece la popolazione si schierò con i turchi a loro volta in guerra con l'Italia. Per cui, furibondo per la reazione di quello che definì "un popolo di beduini", inviò al generale Caneva l'ordine di massacri e deportazioni di massa.
Il 29 ottobre 1911 dueminovecentosettantacinque prigionieri arrivarono sull'isola di San Nicola alle Tremiti. Altri finirono a Ponza, a Gaeta, a Favignana e a Ustica. In quest'ultima isola ne morirono 161 nel 1911 e altri 141 fra il 1915 e il 1916. Le scarse condizioni igieniche e il cibo scadente furono le cause di molti decessi. Così un'altra volta si decise di rimpatriare una parte dei deportati: 917 libici. Questo non fermò le pratiche repressive da parte del nostro esercito. A differenza della fine dell'ottocento l'opinione pubblica fu tenuta all'oscuro di quello che succedeva. Vigeva una rigida censura. Ancora oggi quei fatti sono un tabù da trattare nel nostro paese. Nonostante le tante ricerche dettagliate e le tante denuncie circostanziate in Italia prevale una visione del nostro colonialismo bonaria e tollerante: "italiani brava gente".
L'età dei deportati variava dai 15 ai settant'anni. Tra i deportati di Favignana c'era anche il poeta Fadil Hasin Ash — Shalmani. Nei suo versi raccontò di celle piccole, senza luce, con le porte di ferro serrate. Di una giara di acqua e di una bombola di cherosene per camerone, di giacigli fatti di paglia sudicia.
La forte promiscuità dei cameroni favorì il diffondersi di malattie infettive: tbc, polmonite, bronchite, tifo, colera, deperimento, malattie intestinali. La depressione colpì gli internati, alcuni persero la ragione non sapendo più chi fossero e dove fossero.
Il fenomeno della deportazione si unì a quello di una concezione lombrosiana, con venature fortemente razziste, dei deportati. A tal proposito è significativo un passo degli studi condotti dal dottor Mirabella di Favignana: "Il mio esame conferma pienamente quanto hanno dimostrato i luminari delle scienze antropologiche, difatti, l'esagerata lunghezza del viso dà ai libici la figura animalesca... ...Nessun libico ha la barba folta, a differenza del normale italiano: questa constatazione convalida la credenza popolare e, difatti nessun essere umano uguaglia il libico in criminalità ed in qualità morali peggiori... ...I libici usavano tanto tatuarsi da superare i delinquenti italiani!"
Altri campi di internamento furono aperti direttamente in Libia, nel Sud_Bengasino e in Sirtica. L'idea di rinchiudere la maggior parte degli abitanti della Cirenaica per isolare i combattenti guidati da Omar el-Mukthar, settantasettenne leader della resistenza libica, detto il Leone del deserto, impiccato dagli italiani dopo un processo sommario l'alba del 16 settembre del 1931 nel campo di Soluch, a sud di Bengasi, venne al generale Badoglio. Scriveva Badoglio a Graziani "Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso tra formazioni ribelli e popolazione sottomesse. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione". Infatti dei 110.000 internati ne morirono quasi 40.000, non solo per la fame e le epidemie ma anche per le frequenti decimazioni.
Siamo ormai nell'Italia fascista, quella della cosiddetta "Quarta sponda", cioè la Libia costiera. Mussolini fece confiscare i centri spirituali e assistenziali dei libici e minò la frontiera con l'Egitto. Era la nuova frontiera dell'utopia coloniale italiana, dell'impero di Roma, che aveva già visto l'uso dei bombardamenti aerei, quasi una novità per la guerra, e quello più criminale dei gas contro le popolazioni inermi e i ribelli. Una delle ultime stragi avvenne nel '39 quando un migliaio di abissini vennero irrorati, nella grotta in cui avevano trovato rifugio, da iprite, il cosiddetto gas mostarda per il suo caratteristico odore.
Era nel frattempo iniziata la campagna d'Abissinia. Un'aggressione all'altro unico stato indipendente dell'Africa, assieme alla Libia. La guerra si concluse in sette mesi, grazie all'uso massiccio di armi chimiche. Così Vittorio Emanuele terzo divenne imperatore il 9 maggio del 1936. Con l'accettazione del titolo casa Savoia legò completamente il suo nome a una delle pagine più buie della storia nazionale italiana.
Il fascismo stabilì regole rigidissime per definire le forme di convivenza nei territori occupati. Nel 1937 fu avviata una campagna di separazione razziale fra italiani e abissini, basata sulla superiorità razziale italiana. Vennero aboliti i matrimoni misti fra italiani e gli etiopi così pure l'usanza del Madamato (convivenza con donne libiche). I legami di sangue misti, il meticciato, si definirono un rapporto contro natura. Possibili figli erano considerate creature inferiori. Fu solo consentita la prostituzione indigena. Fu cancellata la espressione "facetta nera". Si introdusse la segregazione razziale con quartieri, scuole, negozi, bus diversi per italiani ed etiopi.
Si può affermare che questi provvedimenti aprirono le porte alle eleggi razziali del 1938.
L'operazione militare italiana prevedeva fin dall'inizio l'uso delle armi chimiche, in particolare dei gas asfissianti. Tra l'aprile del 1935 e il maggio del 1936, il "servizio K" dell'esercito italiano ammassò in un deposito a Sorodico 170 quintali di fosgene, cloropicrina, iprite, arsina, lewisite, oltre a 84.000 maschere antigas. L'altro generale che legò il suo nome alle "imprese africane" fu Graziani il quale non volle essere da meno dei colleghi e chiese al generale Federico Baistrocchi l'invio di 55.000 maschere e 60.000 proiettili d'artiglieria, bidoni a scoppio, aggressivi chimici e gas. Ma i generali dell'esercito di casa Savoia mettevano solo in atto gli ordini di Roma, direttamente del Duce che parlava di "superiorità assoluta di artigliere di gas".
Dopo l'attentato fallito a Graziani da parte di due patrioti eritrei il 19 febbraio del 1937, ad Adis Abeba, la repressione si abbatté ancora più forte sul popolo etiope causando migliaia di morti innocenti. Su proposta del "viceré Graziani" vennero trasferiti in Italia circa duecento notabili etiopi sospetti di trame cospirative. Fra questi anche una figlia del Negus Hailé Selassié. A fine dell'anno 37 i deportati divennero 400. Rimasero fino a quando Amedeo d'Aosta, succedendo a Graziani, decise di rimpatriare i deportati convinto che potessero aiutarlo nel compito di riappacificare l'Etiopia. Ma novanta di questi dovettero attendere il crollo del fascismo, quando si chiuse per sempre l'avventura coloniale italiana, per tornate in patria.
Per centinaia di innocenti barbaramente deportati che potevano finalmente tornare a casa uno che non lo fece: il fante del regio esercito italiano Carmine Iorio. Nativo di Altavilla nel Cilento, Carmine Iorio è di famiglia povera come quasi tutti i giovani mandati a morire dai governi italiani succedutisi dopo l'unità d'Italia e con la benedizione dei re di casa Savoia. A 5 anni già lavora nelle stalle e a otto anni ad accudire pecore, vacche, bufale e cavalli. A diciotto anni, appena sposato con Lorenzina, viene spedito nel novembre del 191 in Cirenaica sul piroscafo America. "E' bello morire per la patria" e "il Mediterraneo è Mare nostrum" proclamano gli ufficiali mentre fan cantare ai militari a squarciagola "Tripoli bel suol d'amor".
La Libia era considerata la "terra promessa": grano, orzo, ulivi, aranci, mandorle, peschi, fichi, albicocche, meli, peri, meloni, legumi e, soprattutto, immensi giacimenti di zolfo. Anche la speranza di far tornare un po' di immigrati che avevano scelto le Americhe per costruirvi il futuro.
Ma di questo sa poco o nulla Carmine, l'unica cosa che gli brucia è non essere riuscito neppure a salutare la sua Lorenzina, che non vedrà mai più. E rimarrà preso in un paese che non conosce, a far la guerra a persone che non gli hanno fatto nulla di male. Rimarrà anche travolto dagli assurdi regolamenti militari: cappotto chiuso anche se ci sono 50 gradi. E un sergente carogna, tal Rosina, che lo deferisce perché una sera che è di guardia ha la camicia sbottonata. Carmine finisce a ramazzare, senza dormire, il piazzale dell'alzabandiera. Poi la sbronza notturna, la rissa con altri commilitoni e la cella di rigore. Una spallata alla porta e via in fuga senza sapere dove.
Fu così che Carmine passò dall'altra aprte. Preso da un grupo di beduini venne portato al cospetto di Sidi Mohammed Idris es Senussi e suo fratello Sayed Mohammed er- Ridà ad Ajdabia, i due leader della resistenza antiitaliana. Qui gli viene notificata la condanna a morte tramite fucilazione, condanna che potrà essere ritirata se ucciderà i rivali dei due fratelli Senussi. In cambio otterrà non solo la vita salva ma anche un cavallo e un alloggio e la possibilità di rifarsi una esistenza nuova. Il dubbio prende il povero buttero, ma poi si domanda forse il re Vittorio Emanuele gli aveva chiesto un parere prima di mandare ad ammazzare gente altrettanto sconosciuta che se ne stava a casa loro? E il sergente Rosina non aveva sempre detto che i soldati non dovevano pensare, dovevano solo sparare? I cappellani militari forse non benedivano i moschetti e le baionette da ficcare nella pancia dei nemici?
Nella confraternita dei Senussi Carmine Iorio diverrà Yusuf el_Muslim, imparerà l'arabo, lui che conosceva male l'italiano. Leggerà il Corano e si convertirà, seppur di notte continuerà a pregare san Gennaro e la Madonna del Carmelo. Nessuno lo ha trattato mai così bene, nessuno lo offende e lo prende in giro, anzi ben presto si sposa e ha dei figli.
Con l'ascesa al potere di Mussolini riprende l'ansia imperiale di Roma e di Vittorio Emanuele terzo detto "il re sciaboletta". Lo scontro si fa durissimo. Davanti alla violenza italiana Carmine fa una scelta di campo, lucida e precisa. Si schiera con la resistenza libica, diventa comandante guerrigliero: "ma non ho mai sparato un colpo contro i miei connazionali, neppure i libici me lo hanno chiesto".
Il 16 novembre del 1928, grazie alla delazione di un arabo collaborazionista degli occupanti italiani, Yusuf el Muslim verrà catturato.
Al processo, per segnare l'estraneità dall'esercito italiano, il giudice pretese che domande e risposte fossero fatte in arabo da un interprete. Condannato a morte Carmine alias Yusuf el Muslim incoraggerà i soldati italiani a premere il grilletto dei loro fucili. Prima aveva rifiutato la presenza del prete cattolico e chiesta quella di un mufti perchè: ”signor colonnello, io oggi me ne vado, ma i miei figli no, loro restano, se muoio da cristiano, saranno i figli di un traditore, se muoio da musulmano saranno figli di un eroe”.