Transgender Mey ark vu
2006 - Trovarobato / Audioglobe
I Transgender esasperano ulteriormente questa caratteristica con una proposta ancora più al di fuori degli schemi: hanno un suono che non si prostra davanti a nulla, nemmeno al cospetto del progressive, e un canto che invece si innalza su un linguaggio inventato (nulla a che vedere coi fonemi dei Sigur Ros).
Per una volta è legittimo parlare di novità, anche se la band romagnola è attiva dal 1997 e dopo una manciata di demo ha esordito nel 2003 per Snowdonia.
Il loro nuovo disco era atteso da tempo nell’ambiente più o meno indie italiano: chi li ha visti dal vivo è rimasto a bocca aperta per la loro possenza tecnica e chi li ha già sentiti in studio sa che Lorenzo Esposito & Co. hanno le potenzialità per spaccare qualunque aspettativa.
Non ci si deve far intimorire se il primo ascolto può risultare pesante o lasciare frastornati. Qua non si ha a che fare con l’ennesima semplice contaminazione di generi più o meno frullati assieme: per quanto sembri di intravedere tracce di Tool, King Crimson, Queens of the Stone Age, dEUS, Bill Laswell ecc, l’elemento fondante è unico ed è esclusiva proprietà dei Transgender, che se lo sono costruiti pezzo dopo pezzo.
La loro è una cattedrale con l’altare al centro e tutte le navate, cappelle e transetti disposti a raggiera in modo da convergere sempre in un solo punto.
Gli arrangiamenti arrivano arcani e occulti, ma anche moderni: “Fray Tjus” comincia subito a girare su colpi e cori quasi gotici, mentre “Suni” devia sulle keyboards per finire in un rituale di voci profane. Basterebbe l’inizio per intuire la solennità della costruzione che si impone all’ascolto, ma i Transgender rincarano la dose negli sbotti di “Actik” e poi frazionano gli spettri di “Soj D” in una serie di parti musicali in cui il canto di Lorenzo Esposito recita un pop astruso.
Impressionante l’attacco di “Na Ryò Esy Ush”, ma soprattutto impressionanti le variazioni di cui è capace il gruppo anche con violino e toy-piano. La formula è quella di un canto che declama impetuoso su un battere di chitarre e keyboards innescando di volta in volta evoluzioni pirotecniche: il prog muta ora indurendosi, ora rincorrendo sinfonie lontane ora rimanendo sospeso nell’etere o ancora facendosi prendere da un’aria vagamente balcanica come nella conclusiva “Natyush”.
Se non credete che tutto ciò possa costituire un corpo vivo, provate a toccare con mano.