The New Pornographers Challengers
2007 - Matador Records
Il resto dell’album dei canadesi non si rivela sempre all’altezza del brano di lancio: merita una menzione speciale ad esempio “All the Old Showstoppers”, dalle sonorità country brillanti, con la ritmica del basso ancora in gran spolvero e tastiere anni ’60 per un power-pop d’eccezione, seppure la canzone sembri mancare di un clou, ma “Failsafe”, nonostante i fiati di Brendan Ryan e le chitarre distorte, risulta ripetitiva, mentre la Casio di “All the Things That Go to Make Heaven and Earth” ha qualcosa di francamente snervante. Notevole è invece la linea vocale di “Unguided”, dotata di un’enfasi ben calcolata e di una struttura che si avvicina al prog-folk come nella conclusiva “The Spirit of Giving”, che non manca di originalità e ispirazione. Tuttavia il pezzo di chiusura del disco, come gli altri composti da Dan Bejar anziché dal leader Allan Carl Newman (ex Superconductor ed ex Zumpano), presenta un’interpretazione teatralizzata leggermente sopra le righe, che sfocia a tratti persino in tentazioni glam.
Allora gli episodi meglio riusciti del cd sono le canzoni più sobrie e scarne, come l’elegante e romantica “Go Places”, dove, quasi con grazia stilizzata, la sfida del titolo diventa fiducia illimitata nella costante e inarrestabile audacia del cuore, in un perentorio invito impreziosito anche dalle note delicate del flauto di Leslie Kubicka. Il segreto di questa canzone è un gioco di pieni e di vuoti, che poggia su di un ritmo cadenzato.
Anche nella title-track apprezzabili sono per lo più i “vuoti”, sottolineati da leggeri echoes, che amplificano l’incertezza degli esiti della sfida alle incognite del futuro dei protagonisti della canzone. Le atmosfere di questo brano, come le ritmiche di “Myriad Harbour” rammentano i connazionali Arcade Fire; anche “Adventures in Solitude” rasenta la perfezione quando è semplice, accorata e quasi dimessa unione dell’intrecciarsi delle voci al suono limpido e caldo del piano di Newman. Intervengono invece poi tocchi di mandolino deliziosi ma anche furori di archi, che sicuramente suonano d’atmosfera, ma danno alla canzone una maestosità a tratti soffocante.
La band di Vancouver resta sempre lontana dal prevedibile sia pure nei momenti più limpidamente pop del disco, ma i risultati sono discutibili, per quanto attestino una qualità di composizione ineccepibile. Più di un brano risulta nel complesso indigesto e finisce per suonare sovraccarico per il gusto quasi capriccioso di infarcire di variazioni inattese gli arrangiamenti: se il super-gruppo si accontentasse anche solo della preziosa efficacia delle melodie, forse da più parti si sarebbe gridato al capolavoro con maggiore fondatezza.