Sigur Ros Með suð Í eyrum við spilum endalaust
2008 - EMI
“Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust” : tradotto in “Con un ronzio nelle orecchie suoniamo all’infinito”, registrato tra Reykjavik, Cuba e Londra, ci presenta la nuova “grafica sonora” degli islandesi Sigur Rós e, dove prima – ad ogni loro uscita discografica - alloggiava il senso emotivo dello stupore ora si affitta una certa dubbiosità, un prendere con le molle quello che fino a ieri si toccava con mano, un “sentirci chiaro” preventivo, necessario.
Prodotto da Flood ( PJ Harvey,U2, Depeche Mode e Smashing Pumpkins) l’album di Jón þor Birgisson e soci prende le distanze dalle sonorità cult post-rock del loro marchio di fabbrica e approda su battigie “di apertura verso l’esterno”, di strane psichedelìe immediate, virate più alla sorpresa (?) che all’impresa; certo non che ci si possa aspettare da una band una produzione sequenziale, a puntate senza prendere in considerazione le metamorfosi, le crescite e le esplorazioni su nuovi territori che prima o poi si paventano, ma una volta che esse si materializzano ci vuole un po’ a metabolizzarle e magari conviverci, come ci vuole ancora meno a demonizzarle. In questo caso si preferisce stare nel mezzo, nell’astanteria del giudizio e provare a farlo circuitare in dose industriale nel lettore ottico per trovare la giusta chiave di lettura di questo nuovo capitolo degli Islandesi.
Un disco pieno di nuove nuances, ritmi e spiriti; il primo in assoluto dove appare una canzone in inglese “All alright”, uno spiraglio che rompe l’incantesimo dell’Hopelandic, ovvero il linguaggio creato dalla band, una sorta di Esperanto astruso che è la caratteristica fonetica della formazione. Andando a spuntare qua e là qualche chicca che buca la tracklist si rimane catturati dalla imponente tessitura sonora di “Ára bátur”, traccia soppalcata dai 90 elementi d’orchestra della London Oratory Boy’s Church e della London Sinfonietta, messa a bilancia con la spoglia esistenzialità chitarra e voce di “Illgresi”. Da includere nell’attenzione anche la dolce linearità vocale volante su archi e piano di “Fljótavík”.
Il pop- o perlomeno un certo sperimentalismo di esso - in questo lavoro dei Sigur Rós è più vicino di quanto si creda e farà rizzare i capelli ai fans delle retrovie conservatrici dell’old Sigur sound; qui non ci sono mezze vie se non si vuole aspettare a capirlo, o si odia o si ripudia. L’intimità soffusa della prima vita è messa in play solo nei nove minuti di “Festival” e la nostalgia “del vecchio” pressa forte in primo piano, ma c’è sempre il malato magnetismo della voce di Birgisson a interagire con l’ascolto; pare dire alla moltitudine di ammiratori offesi per la nuova rotta intrapresa, che sebbene possa sembrare troppo emersa in superficie sul ghiacciaio, il cuore e l’anima vera dei Sigur Rós rimangono sempre incastonati nel centro del permafrost. Loro lo dicono, noi gli crediamo e attendiamo sviluppi; ma intanto, agli altri – gli incalliti – chi glielo dice?