Nothing is easy: live at the isle of wight<small></small>
• Rock, Progressive

Jethro Tull Nothing is easy: live at the isle of wight

2004 - EAGLE RECORDS

16/08/2005 di Christian Verzeletti

#Jethro Tull #Rock #Progressive

Ogni volta che si recensisce un live, soprattutto se di un gruppo storico, si è tentati di immortalare l’evento, di volerlo fissare “nei secoli dei secoli” con parole altisonanti.
Premesso che ogni live a suo modo è, anzi meglio, dovrebbe essere unico, diventa difficile stabilire oggettivamente quali dischi dal vivo svolgano davvero la loro funzione meritando di essere ricordati, magari anche al di là del proprio tempo.
Tra i tanti, troppi, pubblicati soprattutto negli ultimi anni, ce ne sono però alcuni che si distinguono e si segnalano in maniera inequivocabile: “Nothing is easy” dei Jethro Tull è tra questi.
Il valore del concerto in sé è ottimo, non assoluto, ma a questo va aggiunto il particolare significato che l’evento ha avuto: il concerto all’Isola di Wight fu davvero epocale, perché rappresentò e dichiarò la fine di quel periodo storico-culturale comunemente definito “flower power”.
Come ben scrive Ian Anderson nelle note del booklet (“Oh, to be a fly on the wall at the downfall of the hippie days”), i Jethro Tull furono una mosca ferma ad osservare e pronta ad infastidire gli ultimi vagiti degli ani Sessanta. Essendo al termine della loro fase più bluesaggiante e all’inizio del loro periodo più progressive, i cinque folletti si trovarono idealmente e fisicamente, dentro e fuori dal loro microcosmo, sul confine di una terra di nessuno: la loro esibizione, limitata dalla tempistica del festival, gode di uno stato indefinito che vibra di quell’elettricità propria delle condizioni precarie, in cui tutti, consci del rischio del precipizio, portano il loro contributo per mantenere un coraggioso equilibrio.
Per un concerto del genere ci saremmo aspettati un booklet più ampio, magari con una fotografia inedita, e soprattutto un suono di alta qualità: la registrazione è invece ispida, ma proprio questo contribuisce ad aumentare quella sensazione di instabilità su cui il concerto si deve essere svolto. I pezzi non sono stati ripuliti e suonano come se fossero scossi dagli interventi stessi della band: anche le prestazioni vocali ed istrioniche di Anderson hanno una buona resa che evidenzia il carattere mefistofelico della sua ugola sporca, in bilico tra il blues e favole gotiche.
La scaletta conferma poi quanto la band avesse coscienza delle contraddizioni in atto e la scelta dei brani sembra voler sottolineare proprio l’amarezza di fronte al proprio tempo: ogni pezzo è un “clash of cultures”, come per molti degli artisti nel cartellone del festival, e tra tutti vanno ricordati “My God”, “To cry you a song” e “Dharma for one”.
Più che le chitarre di Martin Barre e il flauto di Anderson, colpiscono il lavoro di Glen Cornick (basso) e John Evan (organo), responsabili di filtrare e compattare un suono in cui l’impatto del rock più classico vive d’attriti con il blues, con l’hard (molto Led Zeppelin), con il prog e con la musica classica (il fantasma di Bach è presente in più di un pezzo, non solo in “Bourèe”).
In conclusione c’è un medley che suona come una suite concettuale, ad anticipare la svolta prog della band, ma, col senno del poi, si può davvero dire che i Jethro Tull suonavano allora liberi da tutto, anche da eventuali generi.
Solo gli Who e Miles Davis (di quest’ultima raccomandiamo il dvd uscito non da molto), riuscirono a fare meglio, ma lì siamo davvero a livelli per cui non ci sono parole.

Track List

  • My Sunday Feeling|
  • My God|
  • With You There to Help Me|
  • To Cry You a Song|
  • Bourée|
  • Dharma for One|
  • Nothing Is Easy|
  • Medley: We Used to Know/For a Thousand Mothers

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