Eric Bibb The Happiest man in the World - Eric Bibb and North Country Far with Danny Thompson
2016 - DixieFrog / IRD
#Eric Bibb#Jazz Blues Black#Blues #Eddie Boyd #Janne Haavisto #Olli Haavisto #North Country Far #Danny Thompson #Petri Hakala #The Happiest Man in The World
Eric Bibb, sessantacinque primavere, aspetto da eterno giovanotto, pare scivolare nel tempo apparentemente identico a se stesso. Con cappello a tesa larga, occhiale fumè, camicia morbida fuori cintura, pantalone ampio in fresco di lana, scarpa elegante, possibilmente scamosciata, chitarra acustica al seguito, una bella voce e sani principi si è ritagliato il suo personalissimo spazio nella scena blues internazionale. In Italia l’abbiamo conosciuto solo ieri, ma Eric Bibb immette questo nuovo lavoro sulla scia di una lunga produzione. Tanta roba in studio, dal vivo, che è stata innaffiata da una variegata teoria di collaborazioni. Certo dal 1972 si possono cogliere differenze di periodo, d’impostazione, d’entusiasmo, di attrezzi ma la sensazione è quella di trovarsi nei pressi del same-old-blues. Una medesima canzone disciolta in una vastità spaesante.
Chiariamoci, se nel Blues è del tutto implicita la ripetizione, quasi come la legittimazione di un limite, ciò che distribuisce Eric Bibb è il “suo” Blues e la riconoscibilità non è di tutti. Il marchio di fabbrica di un folk blues che prescinde da un’idea di germinazione pura in terra consacrata; campi di cotone, juke joint e bluesman sdentati e più o meno pittoreschi. Non avendo mai guidato aratri, né familiarizzato con la bottiglia, l’approccio di Eric Bibb nasce per intero da un approccio contemporaneo, culturale, alla tradizione afroamericana. Come tale trae linfa dalla riproposizione, la personalizzazione di una memoria. La ferita della linea del colore, l’elemento che ancora irrora il blues, è appresa, elaborata in famiglia con papà Leon Bibb, metabolizzata nel suo vivere, trasmesso come opzione alla figlia Yana. Il “suo” Blues accoglie la storia ma rifugge dal localismo downhome per svelenire ansie universali. Prende, smonta, ricostruisce. Qualcosa perde, qualcosa acquista.
Eric Bibb è cittadino del mondo, valigia sempre pronta, risiede prima a Parigi, poi a Stoccolma. Viene da domandarsi cosa abbia trovato a Helsinki, ultima tappa conosciuta del suo peregrinare. Saranno state le curve di Hugo Alvar Henrik Aalto, il cinema di Aki Kaurismäki o le passeggiate sul porto, non è dato di sapere. Chissà, forse l’ispirazione, il fantasma, del pianista blues Eddie Boyd, nato a Clarksdale, trasferitosi a Chicago come metalmeccanico che decise nel 1976 di trasferirsi a Helsinki per rimanervi fino alla fine dei suoi giorni lasciando ai posteri la sua Five long Years. Forse.
Sta di fatto che The Happiest man in The world concepito in Finlandia, realizzato in UK, risente molto degli spazi liberi in un paese scarsamente popolato. Lunghi inverni e poca umanità fecondano il pensiero, approfondiscono l’insight, implorano gli incontri. Così può capitare di imbattersi nei fratelli Haavisto (Janne alla batteria e Olli al dobro), diventare amici, imbarcare Petri Hakala al mandolino, impacchettare così i North Country Far per volare con una manciata di canzoni nei pressi di Norfolk (UK) e tanto per non farsi mancar nulla affidare l’upright bass al valore di Danny Thompson (1). Non c’è libidine più alta in musica di trovare ottimi compagni d’avventura e se lo dice uno come Keith Richards c’è da credergli (2).
The Happiest man in The world è pervaso da un senso di beato appagamento, i colori sono pastello, senili, tappezzerie floreali, vasellame decorato, legni, aria di casa. Il mix è rigorosamente acustico lontano dalle irruzioni elettriche di Staffan Astner. Un lavoro pieno di sentimento, calore. Giocoso, jazzy, quanto basta per dire della capacità ormai consolidata di saper fare musica, farla parlare, assemblarla e produrla con gusto.
The happiest Man In the world la title track o Foolin’ down the road scorrono, un po’ di sospensioni in giardino con I’ll Farm for you, nostalgie e pugni stretti in Tossin’ an’ turnin’, magie in un bar europeo con Creole Cafè, due chiacchiere in veranda con On The Porch, introspezioni in Prison of time e Wish I could Hold You Now. Non mancano un paio di virtuose arie strumentali, 1912 Skiing disaster e Blueberry boy. Il veleno nella torta a quattro strati di panna, il limone che inacidisce tanto spirito bucolico è dispensato in coda con una vellutata ma non meno sordida versione di You Really Got Me di Ray Davis. Ma dal momento che il brand va preservato, un paio di minuti di arpeggio chiudono la partita.
The happiest Man In the world non instupidisce l’ascolto per entusiasmo ma il fortino Eric Bibb è ben difeso dall’insieme e da una prospettiva coerente. La magia? Ma quella che accade quando et personne ne dirige…
(1) Pentangle, Nick drake, Tim Bukley, per gradire, senza dimenticare quel gigante di John Martyn.
(2) Il pensiero di Keith Richard in tema di musica e gioia collettiva apre il booklet del disco con aggiunta di una civettuola traduzione in francese.