Migration Blues<small></small>
Jazz Blues Black • Blues

Eric Bibb Migration Blues

2017 - Dixiefrog Records / IRD

04/04/2017 di Mauro Musicco

#Eric Bibb#Jazz Blues Black#Blues

Eric Bibb lascia le arie rilassate, appagate, collettive, di The Happiest Man in the World, per approdare a Migration Blues. E’ nel titolo l’urgenza dell’argomento che scuote ormai ogni nostra comoda certezza. Il blues cade su Migration, non c’è la “e” di e-migration. Migrare non ha apostrofo. La differenza di vocale è sottile solo in apparenza. E-migrare è condizione antica quanto il mondo, la ricerca di altra frutta, nuovi pascoli, migliori condizioni di vita. Il “migrare” è vita nuda, scomposta, disperata di uomini, donne, vecchi, bambini che si muovono diversamente dalle rondini, in analogia con animali spaventati. Per dirla con Carlo Sgorlon migrare è di «gente dispersa e sballottata dall’esistenza» (Sgorlon, 1983). Migration Blues mira in alto, l’accento è su un piatto di radici amare da gustare con i giornali del mattino.

Il video unito a questa recensione, segnala bene il segno del nuovo lavoro. Quaderno, penna, parole che anticipano il suono. Eric Bibb sembra non far mistero di una particolare richiesta di ascolto perché Migration Blues supera il maneggio del cordame. Il blues è lieve, ispirato, risente di tragica premonizione se non cambiamo registro. Vola la voce, il racconto. Dar conto di Migration Blues significa sostare sui brani, malgrado in chi scrive c’è il pudore, la consapevolezza, che le canzoni sono immagini date al mondo dalla sensibilità dell’artista, descriverle il rischio di un arbitrio non sempre necessario. Come disse Keith Haring, a chi guarda, in questo caso a chi ascolta, bisogna lasciare «il compito di decifrarle, di capirne i simbolismi e le implicazioni» (Haring, 1996). Migration Blues però richiede questo sforzo interpretativo perché l’argomento da peso alla parola. Nondimeno la musica, tanto per rassicurare, è di ottima fattura. Eric Bibb è maestro anche in Migration Blues di quel semplice-difficile-a-farsi. Ogni tentazione solipsistica è asciugata per esaltare la narrazione. A Michael Jerome Browne e Jean Jacques Milteau, compagni, sperimentati, sta il compito di reggere corde, il soffio d’ancia, consolidare il sermone, dare spessore a quindici versetti, tanti sono i brani del lavoro. Insomma di questi si deve dire.

Il viaggio inizia con Refugee Moan, la parola chiave è “profugo”. Immagina cosa possa significa abbandonare la propria terra per il flagello della guerra, nessun programma, nessuna meta. Non puoi che sperare di arrivare vivo, il più velocemente possibile, da qualche parte “Where the people have pity on a homeless man (1)”. E’ Siria, Libia, Afghanistan? C’è qualcuno lassù che può sentire il mio lamento? Basta un riff palm mute, armoniche come gufi, come lupi, per rendere il passo sperduto di chi fugge. Delta Getway dice di un tempo in cui la meta era chiara ma abbandonare la piantagione per andare a Chicago non era facile. I latrati dei cani sono proprio dietro di te. Dormi di giorno e cammini la notte. La rabbia stringe un coltello che non vuoi usare. Il ritmo è cardiaco, inseguitore e fuggitivo. Diego’s Blues contiene in tre minuti l’ironia della storia. Gli anni ’20 in America sono stati un tempo di grandi migrazioni interne. I campi di cotone si svuotarono a beneficio di un’industria bellica, che a Nord aveva bisogno di tutte le braccia. Benvenuti anche i neri se gli europei han deciso di farsi la guerra. Così a Sud in mancanza d’altro poteva accadere che a piantar cotone andasse qualche messicano. Fagotti e hot tamales. La migrazione mescola questo è il senso e nella miscela sta il miglior blues.

Prayin for Shore sposta il punto d’osservazione nel Mediterraneo, nel middle passage di casa nostra tra Africa ed Europa. Barchi carichi di ogni umanità galleggiano nella speranza di raggiungere almeno l’altra sponda, poi si vedrà. L’armonica è in minore, c’è anche la voce di Big Daddy Wilson. Si confezionano così le emozioni. La title track, Migration Blues, è uno strumentale, traccia il percorso per mettere a suo agio Four Years, No rain. Mentre ascolto il brano leggo di Donald Trump, con una firma ha annullato ogni sforzo per contrastare i guasti del surriscaldamento globale. Quattro anni di siccità bastano e avanzano per spingere tanti a cercare fortuna altrove. Un filo che unisce questo brano a We had To move. Se un sole senza filtri batte sulla lamiera, il caldo non sarà sopportabile, le radici bruceranno e te ne devi andare. Se l’acqua è poca sarà lo scontro questo è certo, tanti maestri di guerra arriveranno. Eric Bibb non trova migliori parole del Bob Dylan di Master of War per sottolineare il passaggio. La conferma, se ce ne fosse bisogno, che per scrivere del nuovo millennio hai ancora bisogno del vecchio. Da Dylan ci devi passare ed Eric Bibb rilascia una bella versione.

Master of War segna nel disco anche un’inversione al colore del racconto. Dal buio alla luce, dalla frustrazione alla speranza, da tragedia a redenzione, l’invito è a posizionarsi sulla sponda giusta. Brotherly Love dice : “I still believe we can fin a way to live in peace…”. La nostra nave la possiamo ancora salvare dalla tempesta solo se impareremo a ritrovare la fratellanza. L’alternativa è il funereo silenzio della distruzione. A questa inaccettabile alternativa Eric Bibb dedica lo strumentale La Vie C’est Comme un Oignon. L’omeopatia di un violino in tempo di walzer ricorda quei sedicimila coloni francesi del Quebec, famiglie intere, derubate, separate, che furono brutalmente prelevate in Canada per essere scagliate come schegge impazzite in Inghilterra, in Francia, nei boschi dell’Ontario. Molti di loro approdarono a Sud, in Lousiana, terra difficile, inospitale. La mutazione da Acadians a Cajuns fu un calvario, una tragedia giunto a noi attraverso Evangeline il poema ottocentesco di Henry Wadsworth Longfellow. Tuttavia questo sconvolgimento storico che dice non solo della violenza, ma anche della perdita, della nostalgia, del sentimento di abbandono che ti prende quando lasci la tua casa, per sempre. L’evocazione acadiana sta in intrigo con With a Dolla’ in my Pocket. C’è un migrare che è anche energia della insofferenza giovanile incurante di ogni rischio: “With a dolla’ in my pocket I hit Highway 61…”, ma i nodi prima o poi vengono al pettine. Il blues qui è della miglior fatta. C’è tempo anche per una bella versione di This Land is Your Land correva l’anno 1940. Il brano di Woody Guthrie rimane ancora canzone di inestimabile valore sociale altro che pubblicità della Jeep Renegade e muri sul Rio Grande. This machine kill the fascists diceva il nostro e Black top è un omaggio alla chitarra del blues Booker White, al blues di quella generazione, al senso che fecero scaturire. Una musica che non fu solo lamento.

Migration Blues si chiude su Morning Train come a ribadire il concetto, come un ultimo capitolo di un libro, l’ultima stazione di un viaggio cominciato con il lamento di Refugee Moan. Bibb qui pesca nella più lontana e commovente tradizione afroamericana, la unisce alla sua personale esperienza di migrante di lusso, afferma con l’ispirata poesia del canto corale la forza di un Noi umano quale unico antidoto ai peccati dell’Io capitale.

Migration Blues è un gran bel lavoro, sopratutto per chi apprezza il lato acustico della forza. La conferma di Eric Bibb nel suo ruolo di songster, ma anche di uomo blue consapevole del mondo che lo circonda. Great!

 

(1) “Dove le persone hanno pietà di un uomo senza casa”

Track List

  • Refugee Moan
  • Delta Getway
  • Diego’s Blues
  • Prayn’ For Shore
  • Migration Blues
  • Four Years, No Rain
  • We Had to Move
  • Master of War
  • Brothers Love
  • La Vie C’est Comme un Oignon
  • With a Dolla’ in My Pocket
  • This Land Is Your Land
  • Postcard From Booker
  • Blacktop
  • Morning Train

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