
Bill Fay Bill fay
1970 / 2005 - ECLECTIC DISCS
È il caso di Bill Fay, cantautore inglese di fine anni Sessanta, di cui sono già state pubblicate un paio di raccolte (“Bill Fay / Time Of The Last Persecution”, 1998 e “From The Bottom Of An Old Grandfather Clock”, 2004) finite troppo presto nel dimenticatoio.
Questa reissue del suo omonimo esordio, datato 1970, è l’occasione per andare a scoprire un cantautore coi fiocchi, di cui si è innamorato anche Jeff Tweedy che con i Wilco ha più volte eseguito dal vivo “Be Not So Fearful”” fino ad includerla nel dvd “I Am Trying To Break Your Heart”.
Dall’immagine di copertina che suggerisce atmosfere malinconico-romantiche si potrebbe pensare all’ennesimo disco di canzoni autoindulgenti, con arrangiamenti acustici e magari con tanto di archi: Bill Fay è anche questo, ma la sua musica ha una sostanza che va oltre quello stereotipo di cantautore piagnoso a cui siamo abituati.
Ne sono splendida prova queste tredici canzoni supportate da un’intera orchestra che rende ancora più insolita una scrittura già di per sé interessante: i pezzi di Fay sono percorsi da una tensione esistenziale personale, in parte discendente da quel senso di disillusione portato dalla fine degli anni Sessanta.
Fay apre il disco cantando “I’m planting myself in the garden” in quel piccolo manifesto di ricerca spirituale che è “Garden song”: testi ed arrangiamenti sono piantati nell’interiorità ma crescono vigorosi e rigogliosi anche in quei pezzi in cui la luce sembra essere più fioca.
Le entrate degli archi e dei fiati danno finezza e forza: bisogna precisare che a suonare è un’intera orchestra e non un paio di violini alzati di volume come succede spesso. Bastino ad esempio le entrate di “The sun is bored” e di “We want you to stay” per intuire prima il lavoro d’insieme e poi gli interventi solisti che girano attorno al tema dei pezzi.
Il canto di Fay è melodico, ma non compiacente: si alza lieve e fermo e dà proprio l’idea di camminare sulle acque di Hyde Park come nel fotomontaggio della copertina. Canzoni come “Gentle Willie” partono da lontano e arrivano a lanciare strali amari sulla realtà: è una malinconia non adagiata, che sgorga viva da una ferita sempre aperta, come succede anche in “Screams in the ears”.
Lo sticker in fronte al cd recita “the missing link between Nick Drake, Ray Davies and Bob Dylan”: per quanto sfumature di questi autori compaiano nella musica di Fay, questo stile altisonante non gli appartiene. Lo si intuisce nel monito esistenziale di “Be not so fearful” ed anche nelle due bonus-track conclusive che riesumano un singolo del 1967: Bill Fay non ha bisogno di alzare la voce, di urlare o di singhiozzare. Né tantomeno di proclami e frasi ad effetto.
Ha bisogno solo di essere ascoltato.